SEDUTE PSICOANALITICHE REALI E VIRTUALI: DIFFERENZE E VANTAGGI DURANTE LA PANDEMIA

Pre-congresso del IX Congresso Mondiale di Psicoterapia

La psicoterapia: un aiuto ai cittadini, alle famiglie, a tutta società nel periodo della pandemia provocata dal coronavirus”

Mosca 26-28 giugno 2020

Prima di passare a discutere del tema principale del mio intervento, cioè di prassi psicoanalitica, farò una breve introduzione sulla pandemia da Covid-19 e sulle conseguenze che questa emergenza sanitaria e sociale, sta comportando per la salute psichica di tutti noi.

Del resto, i due temi non possono essere scissi e non solo perché oggi per avere audience “bisogna” parlare di coronavirus, ma soprattutto perché l’impatto con un evento traumatico di dimensioni globali ha reso indispensabile dare una risposta alla sofferenza psichica causata dal trauma, nell’unico modo possibile in stato di quarantena, cioè online, facendo crollare le reticenze anche dei più duri oppositori al setting virtuale.

In questi giorni in cui preparavo il mio intervento, mi sono accorta che mi risuonava in testa il ritornello di una canzone italiana che dice: «siamo fuori dal tunnel…». Una manifestazione dell’inconscio a cui noi psicoanalisti siamo abituati a prestare attenzione per interpretare il nostro controtransfert ed anche per capire, come diceva Cesare Musatti (1987) il vissuto degli analizzati, le loro fissazioni e resistenze. In verità lo psicoanalista, dovrebbe prestare attenzione anche alle sue risposte somatiche. “Il controtransfert somatico, secondo A. Lowen, (2017) può essere un “organo di informazione” per intrepretare contenuti inconsci e non elaborati del paziente, ma anche per individuare l’aspetto somatico di ciò che Jung defin iva “infezione psichica” parlando delle dinamiche transferali e controtransferali. (Jung, 1929 La traslazione)

Dopo questa digressione torniamo al ritornello della canzone in cui è espresso il mio desiderio che il brutto periodo trascorso sia alle spalle. Ma cosa ha rappresentato l’esperienza della pandemia e del lockdown per ognuno di noi e quali tracce ha lasciato? Impossibile dare una risposta univoca a queste domande, una risposta che vada bene per tutti, innanzitutto perché ci sono città, zone del mondo e persone che sono state più fortemente colpite di altre e poi perché, come ben sappiamo, la risposta al trauma non è uguale per tutti.

Di fronte ad una minaccia esterna si attivano risposte che hanno lo scopo di mantenere un certo equilibrio. Sono meccanismi difensivi che tendono a modificare la realtà esterna, in modo da renderla più sopportabile. Se questi meccanismi di difesa vengono utilizzati anche quando la situazione di pericolo cessa, essi diventano disadattivi, cioè diventano risposte patologiche: questo è il trauma

È opinione ampiamente condivisa tra gli psicoanalisti che il trauma, da un punto di vista psichico, non sia l’evento, bensì la risposta non adattiva dell’individuo nel momento in cui l’evento scatenante cessa di esistere.

Facciamo un esempio:

le esperienze vissute nell’infanzia come i maltrattamenti, la trascuratezza, l’esposizione all’aggressività della coppia parentale possono generare difese come la dissociazione. Il soggetto si distacca emotivamente dalla realtà esterna e fa come se la vivesse qualcun altro al suo posto. Diciamo che congela l’emotività. Quando queste risposte difensive persistono anche in età adulta, possiamo dire che l’esperienza vissuta ha provocato un trauma e ne osserviamo le conseguenze nel comportamento, nelle manifestazioni sintomatiche ecc.

Prendiamo un esempio attuale:

Io vivo a Bergamo, una piccola città del Nord Italia, ricca di monumenti storici ed architettonici di grande bellezza, con le mura venete patrimonio dell’UNESCO, che circondano la città vecchia, patria del grande pittore Caravaggio e del compositore Donizetti. Ebbene, questa città è stata l’epicentro della pandemia italiana di coronavirus e negli ultimi mesi è diventata miseramente famosa per le immagini delle bare portate in altre città con i carri dell’esercito, per la cremazione dei corpi.

Posso assicurarvi che i miei concittadini non sono “fuori dal tunnel”. Non c’è un nucleo familiare che non sia stato toccato dalla malattia o dalla perdita di un congiunto o di un amico, senza neppure il conforto del funerale.

Gli operatori sanitari hanno lavorato in condizioni di stress estremo, mentre cercavano di fronteggiare un nemico sconosciuto e salvare un numero di pazienti mai visto prima. C’era il rischio di infettarsi, in Italia sono morti 151 medici e 44 infermieri. Per i medici di famiglia, oltre al sovraccarico di richieste di aiuto, lo stress è stato generato anche dalla mancanza di informazioni sicure per orientare la prassi medica (le cure).

Uno studio condotto dall’Istituto di ricerca biomedica Mario Negri su un campione di 10.540 partecipanti, ha evidenziato che il 52,6% ha riportato un impatto psicologico di diversa entità (lieve, moderato o grave) con sintomi di tipo depressivo (mancanza di interesse) e ansioso (sensazioni di pericolo e preoccupazione per la propria incolumità e quella dei propri cari).

In questa situazione, a prescindere dalla paura della seconda ondata, “essere fuori dal tunnel” è per lo più un’illusione. Forse potremmo dire che si tratta di un’illusione della stessa natura di quella che ha portato molti a sottostimare la pericolosità del virus, o che ha indotto tanti altri a pensare che sia stato prodotto in laboratorio e diffuso nel mondo a scopi politico-economici. In tutte queste espressioni, seppur in gradi diversi, riecheggia la ferita narcisistica all’onnipotenza.

Freud (1927) ne parlava in “L’avvenire di un’illusione”: “Diciamo dunque che una credenza è un’illusione quando nella sua motivazione prevalga l’appagamento del desiderio e prescindiamo perciò dal suo rapporto con la realtà, proprio come l’illusione rinuncia alla propria convalida.” (Cap. 6 pag. 461)

Freud interpretava il ricorso alla religione, come l’estrema difficoltà dell’uomo ad accettare la propria impotenza di fronte a tutto ciò che non è da lui governabile, per esempio i fenomeni naturali, le malattie, la morte, ma per estensione/sovradeterminazione, qualsiasi altra situazione che non sia controllabile, fin anche gli oggetti a noi più vicini come i figli, i partner, che non mancano di deluderci e di causarci con questo profonde ferite narcisistiche. Com’è possibile che non siano come credevamo che fossero o non facciano quello che noi vorremmo?

Proprio a causa di questi pericoli, con cui la natura ci minaccia, – diceva Freud – ci siamo uniti e abbiamo creato la civiltà. Il compito principale della civiltà, la sua propria ragion d’essere, è appunto di difenderci contro la natura.” (ibidem cap. 3 pag. 445)

Vero è, tuttavia, che questa pandemia, oltre a rinnovare nell’essere umano la ferita narcisistica per la propria impotenza, provoca anche il ritorno delle paure ancestrali, legate alle esperienze traumatiche delle carestie e pestilenze vissute dalle generazioni precedenti. Minacce alla propria sopravvivenza che, a differenza delle guerre e dei conflitti etnici, religiosi o raziali, ecc. provocano e rinforzano l’isolamento e i vissuti persecutori. Il nemico non è quello dello schieramento opposto, quello diverso per religione, colore della pelle o orientamento sessuale, il nemico in questo caso è indefinibile, quindi si può celare ovunque, persino sotto gli abiti di un familiare stretto.

Chissà che non si debba imputare al coronavirus anche la riacutizzazione delle manifestazioni di razzismo e le rivolte contro di esso; l’impatto socio economico della pandemia e l’impossibilità di identificare il virus letale, potrebbero aver rinforzato i vissuti persecutori e il bisogno di trovare il responsabile di tante sofferenze in un oggetto esterno facilmente individuabile, magari per il colore della pelle.

Il confine tra la sana paura del contagio che ha una funzione di tutela della propria incolumità, e la fobia del contagio che induce l’attivazione di estenuanti rituali e controlli ossessivi, in questi casi è molto sottile. Succede anche, come ci illustra D. Lysek, (2020) che l’angoscia slatentizzi vissuti persecutori. “il rischio sanitario può provocare una regressione patologica a un modo arcaico, anacronistico, di rapporto con l’altro”.

Pertanto, la pandemia, a differenza degli altri eventi traumatici globali, allontana l’uomo dal suo simile, impedisce i contatti umani, disincentiva il senso di solidarietà, mortifica l’istinto gregario, inibisce la socializzazione, le relazioni umane generate dalla casualità dell’incontro, gli incontri sessuali, la fecondazione ecc.

La pandemia, quindi, non solo obbliga all’autoisolamento per evitare il rischio del contagio, ma rinnovando la ferita narcisistica causata dall’impotenza di fronte allo strapotere della natura, rinforza il ritiro in sé stessi, provocando al contempo profondi vissuti di solitudine.

In questo quadro “catastrofico”, siamo stati salvati, è il caso di dirlo, da internet. Le piattaforme virtuali hanno consentito di proseguire la didattica, di svolgere congressi come questo, di essere in contatto con parenti ed amici, di continuare a seguire i nostri pazienti e anche di offrire il necessario aiuto psicologico a tante persone sofferenti e sole.

Come già detto, in questa pandemia, anche i colleghi che avevano un atteggiamento di diffidenza o di rifiuto verso il setting online, si sono adattati facendo di “necessità virtù”.

La necessità e l’apprezzamento delle opportunità offerte dallo strumento, non può, tuttavia, esimerci dall’interrogarci sull’efficacia ed i limiti che la comunicazione virtuale presenta.

La pratica della formazione e della psicoanalisi a distanza è già da tempo diffusa negli Stati Uniti e in Russia, paesi in cui la grande estensione territoriale rende più difficile, se non impossibile, programmare la frequentazione plurisettimanale dello psicoanalista. Questi fattori sono molto rilevanti, perché predispongono le persone ai contatti virtuali.

Ciononostante è proprio uno psicologo americano, Art Markman, (Difficult conversations, Harward Business Review, 8.07.2019) esperto di comunicazione e marketing, a mettere in guardia dall’affrontare online argomenti emotivamente toccanti o concettualmente difficili. In questi casi Markman consiglia di creare un ambiente che sia il più possibile simile alla relazione reale, limitando al massimo le interferenze e mantenendo il contatto visivo. Un punto di vista di cui forse bisognerebbe tener conto anche in ambito psicoterapeutico.

L’Italia è un piccolo paese con una grande densità di popolazione e un’ampia disponibilità di specialisti a pochi minuti dalla propria abitazione o dal luogo di lavoro. È facile capire perché fossero pochi coloro che utilizzavano il setting virtuale prima della pandemia.

Ora che i contagi si sono ridotti a pochi e il pericolo di ammalarsi gravemente è pressoché nullo, si osserva il fenomeno contrario: prevale sia tra i pazienti che tra i terapeuti, con rinforzo da parte delle istituzioni, una tendenza al mantenimento del lavoro da remoto.

Personalmente ritengo che, se ci poniamo in una prospettiva psicoanalitica, qualora la preferenza del setting virtuale dovesse protrarsi a lungo, bisognerebbe chiedersi se analista e paziente non abbiano un atteggiamento di reciproca collusione rispetto alle resistenze indotte dal sintomo fobico espresso nella paura di avvicinarsi, di entrare in contatto, di stare fisicamente nella stessa stanza.

L’utilizzo delle sedute online pone necessariamente alcuni quesiti circa il setting, la dinamica associativa, l’uso delle resistenze, lo sviluppo e l’analisi della relazione transfert-controtransfert e gli interventi interpretativi.

Prima della pandemia il dibattito in corso tra gli psicoanalisti, anche dell’IPA, è stato vivace ed ha visto due schieramenti contrapposti: i fautori dell’innovazione e i conservatori. I primi vedono nella psicoanalisi online un’opportunità anche formativa per coloro che vivono in aree sprovviste di centri di formazione e di professionisti, per i pazienti che viaggiano e non sono in grado di mantenere la frequenza quadri settimanale delle sedute e per coloro che si devono trasferire all’estero per lunghi periodi. In tutti questi casi la psicoanalisi a distanza permette di dare continuità al lavoro analitico. I conservatori, invece, sono del parere che qualsiasi trattamento online possa essere considerato tutt’al più un supporto psicoterapeutico e che online manchi il rispetto del setting, vengano ignorate le resistenze ed il processo analitico sia totalmente assente.

Anche i colleghi italiani hanno partecipato alla discussione, seppur con ritardo rispetto a quelli statunitensi, in gran parte per i motivi sopra accennati delle brevi distanze che non hanno reso necessario il ricorso ad internet e forse anche per aspetti culturali: siamo noti per essere un popolo emotivo, amante del convivio e della condivisione delle passioni.

Ho trovato interessante la disamina fatta da P. Migone (2003). Migone ha un approccio possibilista rispetto ai cambiamenti del setting, includendo anche quello virtuale. Cita le modifiche proposte da autori come Eissler e successivamente Gill che hanno sostenuto la possibilità di modificare il setting purché l’analista faccia l’analisi del transfert che, ovviamente cambia in funzione del setting. Pertanto Migone suggerisce che le sedute online siano utilizzabili, non solo nei casi di distanze impercorribili tra analista e analizzato, ma anche in certi casi con gravi “deficit dell’Io” (problematiche schizoidi, agorafobiche e di fobia sociale) che non riescono ad affrontare il contatto diretto con il terapeuta. Secondo Migone questo approccio dovrebbe limitarsi ad una fase iniziale della terapia per poi tornare alle sedute reali.

Fin dalle sue prime scoperte sul funzionamento mentale Freud (1922) cercò di strutturare un modello teorico e tecnico che, in verità, lui stesso modificò più volte. “La psicoanalisi non è un sistema di quelli filosofici, che partono da alcuni concetti fondamentali rigorosamente definiti…. Al contrario essa si attiene ai dati di fatto del proprio campo di lavoro, tenta di risolvere i problemi immediati dell’osservazione, procede a tentoni avvalendosi dell’esperienza, è sempre incompiuta e disposta a dare una nuova sistemazione alle proprie teorie oppure a modificarle.”

Anche Saraval (1997) mostra un atteggiamento plastico: “Non si possono fissare principi assoluti, poiché ogni psicoanalista opera in base ad ideologie, strategie, modelli propri che, come è auspicabile, tendono a variare in relazione ai diversi analizzandi e ad evolversi continuamente nel tempo, in funzione dell’esperienza clinica quotidiana dell’analista… Abbiamo a che fare con un patrimonio di esperienze sul modo di lavorare degli psicoanalisti più che con la teoria della tecnica consolidata…”

Tuttavia, per definire il lavoro psicoanalitico e distinguerlo da quello psicoterapeutico e ancor più dal supporto psicologico dovremmo tener presente i principi basilari della psicoanalisi. Essi sono: ricordare, ripetere, elaborare.

Ricordare, cioè rendere conscio ciò che è inconscio o preconscio. E poiché molto spesso l’analizzato non ricorda ciò che è inconscio, più semplicemente lo agisce, ripetendo le esperienze passate nella vita attuale e quindi, anche nella relazione analitica, particolarmente importante è l’analisi del transfert e la risposta controtransferale dell’analista.

L’elaborazione è quel processo che porta alla risoluzione dei conflitti e al vero cambiamento, attraverso la reiterata analisi della coazione a ripetere che, per spostamento si riattiva nelle situazioni esistenziali.

Il setting è l’assetto relazionale analitico che lo psicoanalista deve assumere e conservare per tutta la durata del trattamento”, scrive Saraval (1977) Per Bion il setting è un contenitore atto a contenere ed elaborare le angosce del paziente. Il setting, quindi, non va confuso con le regole del contratto analitico, ma queste contribuiscono a definirlo. Le ricordiamo: la regola fondamentale per l’analizzando, l’attenzione fluttuante, il segreto professionale, la neutralità e l’astinenza per l’analista, la definizione del numero settimanale delle sedute, l’orario, il pagamento dell’onorario e la stanza di seduta, considerata il contenitore fisico della relazione e di ciò che in essa si ripete.

La psicoanalisi in remoto, per telefono o con videochiamata comporta sicuramente un grande cambiamento del setting. Innanzitutto, il contatto tra analizzando e analista è virtuale. Mi si potrà eccepire che la regola dell’astinenza rende il rapporto analista/analizzando virtuale, nel senso che vieta il passaggio all’atto dei desideri aggressivo-sessuali riattivati nel transfert. Ciononostante, la fisicità dell’incontro rende molto più reali i desideri e molto più vere, “pericolose” le parole.

Facciamo un esempio: è molto più facile inveire contro un passante dall’abitacolo della macchina, piuttosto che farlo se l’incontro avviene di persona. L’involucro metallico della macchina ci protegge e ci consente di scappare in qualsiasi momento, esattamente come ci protegge il monitor che, tra l’altro può essere oscurato in qualsiasi momento. Il paziente che prova dei desideri di carattere aggressivo/sessuale dei quali si vergogna, è molto più disinibito nel farlo online, proprio come un bambino di tre-quattro anni è molto più spontaneo e libero nell’espressione della sessualità nei confronti di genitori e parenti, di quanto non lo sia un adolescente, per il quale la possibilità di realizzazione del desiderio è molto più reale. Le emozioni, quindi, seppur espresse nel setting virtuale, non consentendo una vera abreazione.

In questo nuovo setting, l’analizzando svolge la seduta in casa propria o in una stanza transitoriamente utilizzata per la seduta, quindi sono assenti elementi importanti che sono induttori associativi di rivissuti di amore, odio, rivalità nei confronti dell’analista e degli altri analizzati. Possono avere questa funzione gli odori e gli oggetti presenti nella stanza di seduta o anche gli oggetti visti nel tragitto verso lo studio dello psicoanalista.

La domanda che ci si deve porre quindi è se questo nuovo setting consente la regressione analitica, la ripetizione e elaborazione delle esperienze pulsionali legate ai nuclei di fissazione, tenendo soprattutto presente che questi processi implicano il coinvolgimento di rappresentazioni ed affetti e che l’impresa analitica non è un esame in cui si fa una bella esposizione del proprio sapere.

L’opinione maggiormente condivisa dalla psicoanalisi contemporanea è che le esperienze di piacere e dispiacere siano psichiche e somatiche e lascino delle impronte nella struttura psicobiologica.

Fino ad oggi queste esperienze di piacere e dispiacere sono avvenute in relazioni reali e per questo abbiamo ragione di pensare che si possano riattivare in un setting analitico reale.

Affinché si possa parlare di un rivissuto analitico virtuale, cioè della ripetizione di un vissuto nella relazione virtuale, credo che ci debba essere stata un’esperienza almeno sensoriale di questo tipo, tanto da poter essere rivissuta in un contesto simile. Cioè che serie ripetitive di esperienze virtuali abbiano lasciato una traccia che il soggetto potrà rivivere in un setting psicoterapeutico online. Se questo pensiero ha un qualche fondamento, presumibilmente si potrà ipotizzare l’efficacia del setting online nelle prossime generazioni, ma sempre limitatamente ad alcuni rivissuti, almeno fino a quando la nostra specie continuerà a riprodursi attraverso la riproduzione sessuata e la sopravvivenza sarà garantita dalle cure primarie della madre o di suoi sostituti. Quando giungerà quel momento, probabilmente la gestazione dell’essere umano avverrà in un contenitore non biologico e magari ad accudirlo sarà un robot, per cui le tracce delle esperienze di attaccamento saranno con una macchina computerizzata.

Fino ad allora credo che dovremmo limitare allo stretto indispensabile i contatti online, riconoscendo loro il merito di consentire la continuità del rapporto terapeutico in caso di grandi distanze, di riuscire ad agganciare alcuni casi particolarmente reticenti al contatto umano, di fornire aiuto psicologico anche in caso di quarantena, ma riconoscendo anche che l’indulgere in questo setting, vuol dire colludere con le resistenze dell’analizzando alla esteriorizzazione dei vissuti aggressivo-sessuali nel transfert.

Se ci dovesse succedere di avere l’impressione di fare un lavoro psicoanalitico efficace, di “essere fuori dal tunnel”, forse dovremmo chiederci se non sia anche questa una bella illusione, dettata dalla nostra onnipotenza.

Bibliografia

Argentieri & Mehler, (2003) La Babele dell’inconscio. Lingua madre e lingue straniere nella dimensione psicoanalitica. Raffaello Cortina Editori, Milano.

Freud S. (1927) L’avvenire di un’illusione, Opere Vol. 7 B. Boringhieri, Torino 1980

Freud S.(1922) Due voci dell’enciclopedia: psicoanalisi e teoria della libido. Opere Vol. 9 B. Boringhieri, Torino 1980

Lowen A.(2013) Il linguaggio del corpo Feltrinelli, Milano

Lysek D. (2020) Coronavirus: risonanze psicosomatiche in rivista multimediale
www.psiconalisi
https://www.psicoanalisi.it/osservatorio/coronavirus-psicosomatica/205943/

Migone P. (2003) La psicoterapia con internet. Rivista multimediale psychomedia
http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/pst-rete.htm

Musatti C. (1987) Curar nevrotici con la propria autoanalisi Mondadori, Milano

Saverage Scharff Jill (2018) Psychoanalysis online Routledge, N.Y.

Savaral A. (1997) Tecnica Trattato di psicoanalisi vol. I a cura di Antonio e Alberto Semi. Raffaello Cortina Editore, Milano.