il valore del “quasi” nel processo di elaborazione ricombinativa
Parte prima
In questi difficili tempi pandemici è protagonista l’angoscia dello sconosciuto per l’alito di morte e malattia che ha investito e, più o meno consapevolizzato, il mondo. Sicuramente, le persone inseguono certezze che non ci sono. Controtransferalmente, seguo l’elaborazione di qualche singola consapevolezza che, talvolta, nel silenzio dell’ascolto analitico, può incontrarne qualcuna di personale. Sono, come sempre, bagni di verità. Tentativi di svincolarsi da immagini di felicità totale per adattarsi poi, con energia e coraggio, alla nuova realtà del “quasi” che diventa, allora, un possibile presupposto di trasformazione verso indirizzi sinergici, dal campo analitico alla vita reale. Freud in “Psicopatologia della vita quotidiana” (1901, p. 248), scrive: “E’ forse una conseguenza del mio occuparmi di psicoanalisi se quasi non riesco più a mentire”. C’è chi, come Michel Onfray (2010, p. 208) nella sua crociata dissacratoria contro Freud, additato come filosofo, mentitore e negato come scienziato, ha visto in quel “quasi freudiano” solo uno dei tanti esempi di “soggettiva psicologia letteraria”. Da parte mia, disinteressata alle interpretazioni (fuori seduta) dei “moventi degli autori” (Verde, 1996, p. 18)i e interessata invece ad accompagnare i tentativi di scaricare tensione nel sogno, nelle dinamiche di seduta, nei movimenti creativi analitici e postanalitici come indici di verità, in quel “quasi” freudiano, colgo una soggettiva sana possibilità di distensione che ha saputo accantonare l’ideale della perfezione. Un momento di sosta dell’oscillazione conflittuale in cui può scaricarsi un po’ di tensione. Una ricchezza, associabile alla matura saggezzaii dell’aurea mediocritas: una bella lezione del nostro Maestro! E, rappresentandomelo come uno dei tanti insigth di Freud, nel suo lungo allenamento al ragionamento metapsicologico, lo propongo come indicazione interessante e fruttuosa da far propria come risultato di una sorta di accomodamento tra principio di piacere e di realtà.
Verità come emozione. Immergiamoci ora nel bagno di verità, dal punto di vista delle emozioni dell’analista, dell’analizzato e del campo analitico (v. anche Galimberti 2017). Quando, nella relazione transferale/controtransferale, l’analista riconosce le emozioni, a partire dalle sue, queste verità soggettiveiii testimoniano l’essenza trasformativa del campo analitico dove può inconsciamente manifestarsi il “fenomeno, descrivibile psicoanaliticamente come contemporaneità del desiderio” (Peluffo 2006, 2011 p. 193) di cui parlo spesso. Anche Sandro Panizza (2011), riferendosi alla “personalità dell’analista” (pp. 105-108), suggerisce proprio la “comunicazione tra inconsci”, già chiara a Freud” (cfr. in Panizza p. 107: Freud, Consigli al medico 1912, L’inconscio 1915, Due voci di enciclopedia 1922 e l’Io e l’Es 1923)” e lo presenta “come un cambiamento di focale” (p. 105). “La verità, le molte verità diventano tali a seconda di chi le vive e le interpreta”, scrive Panizza (2009, p.192), palesandoci il suo dialogo con un Freud “ironico”, come quel: Raccomando vivamente la Gestapo a chicchessia… (cfr. anche Ceccarelli, 2008). Lanciandosi a dimostrare che in Freud la “speranza” non è mai morta, questo psicoanalista ce lo offre come un Maestro “pulsionale e relazionale” (Panizza 2009, da: “Come leggere Freud con piacere”, pp. 7-13).
La verità dei rivissuti controtransferali nel campo analitico. Oggi c’è accordo tra gli analisti nel dare attenzione ai rivissuti controtransferali immessi silenziosamente nella relazione inconscia del “campo analitico”. Antonino Ferro (2007) spiega la nozione di campo come “luogo delle multipotenzialità di analista e paziente e di tutti i mondi possibili che possono aprirsi al loro incontro” (p. 65). Significativo anche quanto ne scrive Salomon Resnik, citato da Sandro Rodighiero (2011, p. 2): “il Campo dell’incontro, come quello elettromagnetico, si modifica a seconda della presenza, dell’assenza o dell’atteggiamento di ogni suo occupante”. Micropsicoanaliticamente parlando, mi rappresento e sento il campo come una situazione in cui si incontrano e si scontrano sfaccettature dell’Immagine, nell’impasto-disimpasto pulsionale dei singoli apporti (Cfr. ad es. Gariglio, 2015, pp. 15-24). Si tratta di una complessa rete pulsionale sommersa dalla cui vibrazione scaturisce qualcosa di comune di cui si imbeve la relazione stessa, fino a trasformare talvolta la solitudine in soggettiva opportunità creativa, condivisibile. Anche Ferro mette al primo posto, “l’investigazione, da parte dell’analista, delle risposte controtransferali che si snodano nelle relazioni inconsce” (Seminario SPI, Torino 2011). Diciamo che, nei rivissuti transferali-controtransferali, si scontrano/incontrano le singole individualità, dal punto di vista della “personalità e del temperamento” (cf. Reik), rendendo ogni relazione unica e irripetibile, anche in omogeneità di strutture. Sulla soggettività, dico ancora che la consapevolezza di ciò che, nel tempo, ho elaborato come “il raggiungimento del proprio originale”iv (un ibridov di conflitti e benessere), viene ad assumere il valore di verità psichica (mi sto riagganciando al discorso sulla “Verità come tentativo di coerenza psichico-reale”, portato al convegno Verità e realtà psichica, IIM 2012, XIII Ed. G. S. F. M.). Con la destrutturazione graduale delle difese (proiezioni et) da cui si mette in moto una sinergia intrapsichica e interpersonale, prendono vita delle nuove verità con cui convivere. Ne scrive già Freud (1910, p. 203): “Le verità più taglienti sono finalmente ascoltate e riconosciute quando gli interessi e gli affetti da esse risvegliati si sono placati (…) dobbiamo saper aspettare.”
Vera, sospesa tra verità e menzogna come il “quasi di Freud”. Ho un atteggiamento comprensivo nei miei confronti, si dice Vera, dopo anni di sedimentazione analitica, in un piccolo rappel in cui anche qualche residuo conflittuale è ora collegato con tentativi di ricombinarlo con movimenti tendenti ad un benessere, nel quotidiano e nell’immediato. Diciamo che è stato tessuto un equilibrato livello di fluidità psichica che, non inseguendo più l’assoluto e la perfezione, consente alla persona di accettare un “quasi”, senza sminuirsi, come l’unica possibilità di verità accettabile e onorevole, in quel suo momento. Un hic et nunc con potenzialità che, non più fagocitate, stanno esprimendosi come possibilità nuove, date da una miglior governabilità di una struttura psicobiologica, capace di adattarsi. Genericamente detto, nell’elaborazione analitica, queste possibilità addestrano tale capacità, immettendo la persona in una tessitura di esperienze ugualmente soddisfacenti, verso una realtà più confortante. Qui, un presente può tornare pulsionalmente decoroso, essendosene tralasciati i richiami morbosi verso il passato e l’eccessiva preoccupazione per il futuro. Ancora Lopez, in un bell’aforisma (2011, p. 55) parla di “assaggiare la vita e non farne abbuffate; il frutto va toccato con mani vellutate, delicate” e Freud, augurando “felicità”, in una lettera, indica proprio il presente a Ferenczi (1919, 780F, trad.it. p. 347), ipotizzandolo come il raggiungimento di “una età dell’oro”. Insomma, mi piace ancora pensare che ci si possa riferire ad una personale costante verità quotidiana che contenga un sufficiente livello di soddisfazione e distensione, coerente con un desiderio ritrovato, dopo l’avvenuta risoluzione del conflitto, indicato da Freud a Ferenczi nella stessa lettera, tra “l’adattarsi e il cambiare il mondo esterno”. Il Maestro ne sceglie l’adattamento dove risiedono, vorrei proporre: vita-libido-verità. Mi sono sempre sentita abitata, posseduta, agita, conferma oggi Vera, rivendicando “la sua età dell’oro”, nell’immediato quotidiano di un “qui e ora” analitico, che le vale come momento di verità: avevo dentro di me una mistura conflittuale di tracce diaboliche, alcune sentite come aliene, attutitesi man mano che davo loro un nome. In queste sedute, la mia attività è nel contatto con una parte vitale profonda. Ora so che mi ha sempre aiutato, anche se tacitamente, a non farmi risucchiare dal protagonismo, di tante crepe traumatiche. Ora le sento in superficie e potrei spazzarle via. Avrei continuato a mentirmi se non avessi riconosciuto pari dignità a questi aspetti di vita. Tale ridimensionamento accentua, non tanto la parzialità della verità con i vissuti di mancanza e frustrazione per l’ideale non raggiunto, bensì l’accettazione di uno scarto dal desiderio, relativizzato in virtù di una realtà che non è del tutto omogenea al desiderio in questione. Allora, ascoltando Vera, quel “quasi” freudiano, l’avevo anche riformulato, su stampo winnicottiano, come “sufficientemente” (preferisco dire: mediamente) “buono” su cui appoggiare l’oscillazione verità-menzogna. Altrimenti detto, un livello di verità “mediamente” accettabile, nel farsi della trasformazione per diventare “persona”’, citando ancora Davide Lopez che, teorizzando una vera e propria “teoria della persona, e del rapporto della persona con la persona”, nell’opera, curata postuma, da Loretta Zorzi (2011, p. 21), ne parla come “sintesi riuscita di impulsi, emozioni di qualità elevata, ma anche non priva di forza ed impetuosità selvagge e consapevolezza…” (p. 89). Si può dire che il tentativo in corso, in ogni analisi, sia quello di muoversi dalla periferia al centro, nel rispetto delle incrostazioni conflittuali più profondamente incistate. Seguendo il dipanarsi dell’analisi, l’energia liberatasi via via nelle sedute, si indirizza verso scelte d’oggetto possibili, su desideri ritrovati, per scelte più fondamentali. E quando, in un continuum, viene sentita coerenza tra una identificata verità psichica e certa sua realizzazione nella realtà, il vissuto dell’analizzato è di stima e soddisfazione.
Verità come coerenza psichica e reale. Nel tempo, ho continuato a riflettervi, collegando le due situazioni. Mi sono allora interrogata, cercando, come è mio uso, di individuare, nell’esperienzialità del lavoro analitico e postanalitico, qualche parametro oggettivo che indicasse, nell’oscillazione tra verità e menzogna, una piccola sosta con la possibilità del recupero di uno spazio mediano di benessere. Uno spazio-tempo in quanto verità psicobiologica che attesti il raggiungimento di una distensione per aver soddisfatto coerentemente, nella realtà, un desiderio ritrovato. Quando mi riprende la paura della malattia, dice Vera, oggi in grado di elaborarsi qualsiasi vissuto, riconoscendolo come rivissuto, sapendo che, con l’analisi mi ero molto irrobustita, mi sento già meno invasa e mi concentro sulle nuove libertà che mi hanno fatto sentire autentica e sincera. Come ora dove sento anche i suoi stimoli che prima non potevo ascoltare, dovendo proteggere il mio privilegio autistico… Lo ricordo, a volte mi era sembrato di stare in una ghiacciaia narcisistica; rievoco certa mia rassegnazione in cui, sentendo inibito il contatto empatico, mi consolavo recitandomi un perturbante Noli me tangere, come rappresentazione negata di un sano desiderio invece di toccarsi (Nancy, 2005, vedi seconda parte), sottostante al tabù che spinge a un vade retro luciferino. E, mentre aspettavo che, in analisi, tale desiderio diventasse eventualmente protagonista, ne cercavo intanto traduzioni varie e immagini nella storia dell’arte, conscia della lontananza da cui proveniva Vera, invasa da rivissuti anche filogenetici, traumaticamente angoscianti che le davano forti input di distruttività inconscia che rispettavo come suo materiale umano. A un certo punto, per non stabilizzarci su un’analisi infinita, il lavoro era stato accantonato, a favore della vita di realtà, accomodandoci su certa relativizzazione raggiunta che può comunque già aprire a nuovi tentativi.
Un rappel rivelatore. Ora, questo piccolo approfondimento aveva invece evidenziato un movimento naturale trasformativo di Vera verso un suo proprio benessere, psichico e reale, unendo desiderio e tentativo, in coerenza con qualche sua nuova verità, individuata e vissuta. Chi mi conosce sa, che nel tempo, son diventata una “teorica esperienziale”, dicendolo con Gaddini (1984), delle “tracce di benessere inconsce” (Gariglio Lysek 2007, Gariglio 2010 et.) che possono riattivarsi nel preconscio, nel corso del lavoro analitico, come quelle conflittuali/traumatiche. Entrambe le tracce, anche se con diversa vibrazione energetica, rendono pulsionalmente effervescenti le dinamiche di seduta. Il terreno, dice Vera, esperta di natura e campagna da più generazioni, quando è ridiventato fertile può germogliare! È vero, in analisi, può rendersi naturale un movimento che, con il collega Daniel Lysek, abbiamo chiamato di “elaborazione ricombinativa” (2007, pp. 48-56) in cui i residui conflittuali traumatici di elementi rimossi disattivati si elaborano e si ricombinano con certe tracce di benessere, latenti nell’inconscio e tornate libere dopo la distensione di un rimosso. Nella nostra modellistica, quando la proporzione del benessere riportato a galla, è superiore a quella dei residui conflittuali, si origina creatività benessere che porta, nello psichismo, distensione soddisfazione adattamento e induce rapporti adulti gratificanti. Questi hanno oltrepassato l’ambivalenza edipica conflittuale che può applicarsi anche all’incontro/scontro tra discipline, religioni o mentalità diverse.
Solitudine creativa per andare oltre. Incontrata la propria alterità si può, anche, incontrare l’altro. Tale consapevolezza soggettiva viene sentita come coerenza di verità rappresentazionale-affettiva, psichica e reale. L’andare oltre è legato sempre all’avvenuta disattivazione di qualche rimosso, verso una condizione intrapsichica e interpersonale sinergica in cui ogni trasformazione favorisce incontri più armoniosi tra le proprie istanze e le persone, che potrebbero allora funzionare come rete. Edward Shapiro (2011) parla di “mondo esterno e mondo interno”. Lo intendo come un ponte attraversabile solo attraverso la creazione di un linguaggio nuovo con scambi reciproci tra maestri e persone che si sono stimate, volute bene, riconosciute e capite. Un linguaggio nuovo come relazione, nata da una gestazione creativa, dopo il vuoto scaturito dall’angoscia e dal lutto di certa disattivazione edipica, conflittuale in senso lato, o da qualsiasi altra perdita. Con il superamento dell’Edipo, “si perviene al livello più elevato di sviluppo libidico-emotivo e mentale, quello genital-personale, il livello della persona”, conferma Davide Lopez (2007, p. 102) un maestro con cui avevo trovato affinità di vedute in merito al benessere profondo, riattualizzabile in analisi e nella vita (in Gli Argonauti, Gariglio, 2011b, p. 43). Si può così cominciare a tessere rapporti adulti, rispettosi (Cfr. un lavoro sulla “coppia sinergica”, Gariglio, Lysek 2020). Non ho ancora ben chiari oggi i miei diritti, dice Vera, di fronte alla spartizione di una possibile eredità, ho solo questo desiderio di vivere una vita limpida nel rispetto reciproco. Come l’analisi dimostra, l’eredità è anche fruttificazione coerente di certe tracce psicobiologiche di benessere. Un bagaglio di un’“umanità con tendenze sociali probabilmente più antiche della religione e della civiltà”. Ce ne parla il Primatologo Frans de Waal in L’età dell’empatia (2011a, tr. Carlo Reschia), dopo averci già indicato (2006, 2011b) come costanti scientifiche “altruismo, generosità, gentilezza in comune all’essere umano e alle scimmie bonobo”.
Parte seconda
L’analisi come preludio di nuova verità-vita. Quando la persona ha dimestichezza con il processo di “elaborazione ricombinativa”, ciò che ritengo significativo è che, la manifestazione reale con i suoi tentativi contenga, almeno in parte, un personale desiderio portato a galla dalle profondità psichiche ed espresso in coerenza di verità rappresentazionale-affettiva. Lopez (2009, p. 124), definendo la coerenza come “l’accordo tra il livello della vita personale e quello del pensiero”, si sofferma sulla vacuità di una “vita emotiva desolata” in cui lo sforzo culturale ha solo lo scopo di nascondere e “falsificare la povertà interiore del pensatore”. Tale desolazione affettiva spesso protetta dalla cultura (come meccanismo di distanziamento, spostamento, negazione etc.), nel lavoro analitico può essere un’osservazione di buon livello come verità misurabile oggettivamente. Il che, nel dibattito sulla scientificità della psicoanalisi che rimanda anche all’efficacia di un’analisi, o di una psicoterapia, mi è sembrato interessante: “Poiché l’analisi mira a trasformare un essere umano, scrive già Freud a Ferenczi (29 giugno 1918, lettera 753F, tr.it. p. 315), può proseguire dopo la scomparsa dei sintomi”. Per me, nella trasformazione di un’analisi che continua nella vita reale in autoanalisi, supportata ogni tanto o alla bisogna da dei rappel, è importante verificare, dopo la disattivazione di una stasi libidica emotivo-affettiva, nella nascita/riscoperta di qualche propria verità, anche un subentrare naturale di creatività, nello psichismo (sogni, fantasie, desideri…) e nella vita con i suoi tentativi. Si crea perchè si è vivi e si vive con rinnovato calore e nuove soddisfazioni, in sinergie naturali che, assecondando il movimento di istanze personali ammorbiditesi, portano a più solidali scambi interpersonali. “Io non vedo i confini tra le cose, ma solo il libero fluire l’una nell’altra”, scriveva già quel pioniere di psicosomatica, Groddeck (1921, tr.it. p.55) a Freud, in “un’amicizia duratura, sentita da entrambi” (p. 114). E lo racconta “grondante di saggezza e sudore” (p. 55), con ciò a raccordare verità e coerenza, nei fatti della sua vita e nel modo di teorizzare che Freud apprezza vedendovi anzi “aspetti veramente nuovi della psicoanalisi” (p. 57). Verità/ sopra ogni cosa/ senza sconti/ feroce/ limpida/ cruda/ innegabile/ Verità/ sempre: poesia ricevuta, proprio mentre sto scrivendo queste riflessioni sulla verità, da una… antica analizzata, una bella persona che, infine, è riuscita a muoversi nella vita secondo una sua verità non omologata (come non ipotizzare la permanenza, nella sua vita, di quei desideri inconsci contemporanei (Peluffo docet), già scoperti in analisi?). Anche Roberto Speziale-Bagliacca, in Come vi stavo dicendo (2010), portando qualche esempio di incoerenza dell’analizzato tra stile usato in seduta e fuori seduta (cfr. ad es. p. 190) lo suggerisce come dato oggettivo da rimandargli. Ritengo che tali tracciabilità siano anche indicazioni per valutare se un’analisi stia tessendo trasformazione andando nel senso della vita, ossia del recupero di quelle “forme vitali, dinamiche, fin qui sottaciute”, come ne scrive Daniel Stern (2010, tr.it. 2011). Nella sua verità, Vera dice: Ora mi sento viva anche quando mi attraversano dei venti freddi di morte, dando visibilità a qualche sua “traccia di benessere latente”, funzionante, per me, come quelle “forme vitali che, se accompagnate dal terapeuta”, valgono come “sintonizzazioni affettive” (Ib. p. 117).
Sinergie salvifiche. Questi movimenti vanno dunque nel senso di verità psichiche, evidenziabili nel riaffiorare creativo e inseribili in sinergie interdisciplinari come quella di Stuart Kauffman, un biologo americano che, occupandosi della teoria della complessità, dichiara: “fonderò una nuova ed emergente visione scientifica del mondo”. Così, nel suo Reinventare il sacro (2010vi), assimila la creatività a questa rappresentazione di Dio e dell’uomo: “Siamo co-creatori di un universo, spiega, di una biosfera e di una cultura di nuova e infinita creatività”. Condivido questo invito/desiderio a parlare di scienza con interdisciplinarietà, umanità e ricchezza creativa, ma mi dissocio da questo richiamo, ancora a Dio, pur inteso come “pienamente naturale” e chiamato “creatività stessa dell’Universo” (p. 8). Non ve n’è bisogno. Attenendoci all’uomo, la creatività, quando è sinergia, frutto di elaborazione ricombinativa di tracce conflittuali e di benessere, può bastare da sola a spiegare la spinta vitale nella struttura psicobiologica e spirituale, perché è alleanza di pulsione di vita e creatrice, perché è vuoto benefico che, dal lutto elaborato, attinge l’essenza del bagaglio energetico anche culturale, riappropriandosi di risorse naturali e tendenze sociali sopite, perché è umanesimo che spinge ad incontrarsi, per condividere empaticamente tali frutti ritrovati. Nel suo ultimo saggio (1981, in A. Carusi 2003) sull’empatia, Heinz Kohut che se ne è interessato per tutta la vita, lasciandocene ancora qualcosa alla fine, parlando di “empatia e spiegazione” (intervento che tenne al V congresso di Selfpsychology, a Berkeley, nell’estate 1981, pochi giorni prima della morte), sostiene che l’assenza di comprensione empatica tenda a produrre effetti ancora peggiori di un rapporto di odio, perché nega o cancella la soggettività dell’individuo. Nel mio pensiero, ciò vale per ogni figura con funzione di tramite (Gariglio, 2020 a // b, pp. 306-311) che abbia più a cuore gli schemi di riferimento dei maestri, fatti propri, che non la capacità di sintonizzarsi su desideri comuni e contemporanei, individuati in sé e riconosciuti nell’altro (Cfr. Gariglio 2021, 1-3). A dire che, è empatia, anzitutto provare curiosità rispetto benevolenza e stima per se stessi. In caso contrario, il controtransfert dell’analista rischia solo di assorbire per identificazione inconscia la disperazione del paziente con l’impossibilità di rimandargli anche l’attenzione alle parti sane. Sto dicendo come sia impossibile, essendosi negate le parti buone di sé (adattamenti compresi), la tessitura di certe verità profonde che l’analizzato potrà tentare di realizzare congruamente nella realtà, a scelta, in cammini anche comuni.
Riflettendo sull’attuale pandemia, per il nostro lavoro. Se, ad esempio, da questo difficilissimo momento di pandemia mentre stiamo respirando un certo alito di Thánatos, prendessimo la spinta per guardarci indietro, magari, potremmo condividere con Kohut queste sue parole: “possiamo guardare indietro alla nostra esperienza per considerarla come un tutto ed estrarre da essa un significato più ampio” (Kohut, 1977, tr. it. 2002, da “Epilogo” p. 234). Direi “solo” un significato più ampio, in una sorta di condensazione che contenga la nostra verità. Eppure, accettare di parlare di sé, uscendo dal solco facilitante dei maestri, non è sicuramente facile ma a non farlo mai si rischia di aver oscurato ogni specchio e di non poter quindi viversi anche il piacere di aver ascoltato i richiami di certe verità profonde e personali e aver tentato di esprimerle, nel lavoro, nella vita affettiva e relazionale, pur conservando il rispetto delle origini e delle matrici. In clinica psicoanalitico/psicoterapeutica penso all’imprenscindibilità di tutto ciò, come a un’autoriflessione con funzione di facilitazione, per disincagliare certi profondi congelamenti dei nostri pazienti. Anche Sandro Rodighiero, rivolgendosi a “qualsiasi operatore della salute mentale” disposto a dare “vicinanza e ascolto”, parla di restituire a colui che ci appare come l’alienus la dignità dell’alter attraverso la costruzione di una relazione intersoggettiva paritaria nella sua reciprocità…” (2011, p. 1, cit. in prima parte). E, nel 2020 aggiunge (p.109): “Entrare in contatto con una persona svuotata, fredda chiusa, lacerata, può essere doloroso e faticoso ma sappiamo che l’esserci, essere presenti, testimoni muti e accoglienti, può voler dire trasferire un po’ di calore, quel tanto che basta ad innescare un disgelo che salva una vita. Anche se congelato, il paziente, vede, sente e ricorda e in questo ricordo nasce (…) un legame alla vita”. Allora, per un analista, dare un ascolto empatico, può significare essere controtransferalmente conscio del desiderio di tessere vita, da una parte ma anche di riceverne, dall’altra. Anche questo lo intendo come verità: un muoversi nel rispetto sinergico.
Un’esemplificazione clinica. Si tratta di una tranche di micropsicoanalisi che segue ad un lavoro analitico che ha risolto all’analizzata un’inibizione lavorativa. Anni dopo, la persona mi contatta, stimolata, dice, dai miei studi sulla creatività in analisi. Segno che ora si sente pronta, penso, ad addentrarsi nella dinamica situazionale complessiva e complessa, impastata di vita, morte, sessualità, aggressività, creatività, spiritualità, nel gioco delle sfaccettature dell’Immagine che evidenzierò nel dettaglio di una trasformazione conflittuale-traumatica, in un’altra di maggior benessere. Insomma, oltre la relativizzazione di conflitti, punto di arrivo dell’indagine psicopatologica! L’analista, in questa situazione, è consapevole sia del percorso verso l’atto creatore che porta a scendere nell’abisso dell’iceberg, sia del percorso dell’atto stesso che porta a risalire verso la manifestazione reale.
Atteniamoci al fatto analitico. L’elaborazione di un ricordo doloroso di una tavola traumatica si addolcisce, nel ritrovamento di un’altra tavola, chiamata imbandita, di luce. Ciò avviene dopo che, in una seduta, si sono consapevolizzati e comunicati, in un transfert positivo, dei piaceri esperiti durante le associazioni come l’aver assaporato il calore dei piedi sotto la coperta preposta all’oscillazione caldo-freddo della nostra seduta e il piacere di un sorso d’acqua, richiesta… Nella rievocazione della tavola traumatica, una bambina sempre sgridata in malo modo durante il pasto familiare, si rifugia ammutolita sotto al tavolo. Nella tavola imbandita, riattualizzata nell’hic et nunc analitico, l’ex bambina rievoca ora una buona situazione, fin qui, fagocitata dalla ripetizione coatta di relazioni difficili. Così, riprende corpo la sfaccettatura di un ricordo di benessere totalmente dimenticato, che diventerà la forma nuova dell’induttore associativo: da piccola, rievoca l’analizzata, nel giardino di mia nonna in una tavola di pietra, con i miei amichetti, ridendo felici, ci scambiavamo le merende… come qua quando ho bevuto e usato un fazzolettino trovato sul bracciolo. Tale ricordo è accompagnato da emozione, diventando un nuovo induttore associativo, in cui l’affetto si potenzierà cammin facendo. Puntualizzo, con Ferro (2010, tr.it. p.1) il “difficile passaggio da un regime di tenerezze e affetti a un regime passionale, l’unico capace di generare qualcosa di nuovo e di vivo”, dal transfert analitico alla vita. In quel momento, la persona aveva già detto di sentirsi globalmente meglio, muovendosi con maggior benessere: una verità psicobiologica in coerenza di rappresentazioni e affetti immessi anche in nuovi tentativi della vita reale. Allora (2012) mi ero chiesta se quella tavola di luce avrebbe avocato a sé altre tracce di benessere, nel tessersi di trame più vitali. In effetti, dopo diversi anni, un familiare consapevolizza un suo specifico desiderio di analisi che gli consentirà relazioni affettive più neutre, con attutimento di colpevolizzazioni, rammarichi e contenziosi, mentre si rifanno avanti importanti motivi familiari rimasti nell’ombra, immagini filogenetiche di benessere psicobiologico nel terreno familiare (cultura, capacità di lavoro, verità personali portate avanti per proprie esigenze di coerenza…). Daniel Stern (2010) potrebbe parlare qui di “forme vitali dinamiche”: “un argomento sotterraneo, mai studiato approfonditamente in campo psicoanalitico e neppure in campo psicologico”, argomenta Massimo Ammaniti, nella Prefazione all’edizione italiana. Non è vero: con il collega Lysek stiamo da tempo parlando delle dinamiche di benessere, latenti nell’inconscio, strettamente legate alla vita e alla creazione. Anche per noi: “Le tracce delle forme vitali sperimentate in passato sono custodite nella memoria, dove vengono associate ad altri ricordi” (Stern, p.108) ed anche per noi la “terapia è consequenziale”, come per Stern che: “affianca le forme vitali ad altri approcci (…), indicando la possibilità di un “approccio microanalitico all’esperienza fenomenica delle forme vitali (p. 112). “Tale approccio contiene un significato profondo come quello accordato al livello psicodinamico macroanalitico, secondario e derivato, scrive Stern, perché costruito sulla realtà del livello microanalitico (…). I due livelli sono in dialogo continuo, alimentato incessantemente da un circolo virtuoso.” (p.115). Va da sé che, l’attenzione microanalitica in Stern mi abbia richiamato il “microelemento, in micropsicoanalisi in cui, per il meccanismo dello spostamento, si concentra l’affetto”, sempre argomentato da Peluffo (1976. Vedi anche 2010, p. 15, nota 3), nel “mantenimento della struttura nevrotica”. Di qui per me, come accennavo, le forme vitali di Stern, “rintracciabili” in “livelli microanalitici di vita, profondi” (p.115), potrebbero coincidere con le tracce di benessere inconsce elaborate e ricombinate nel preconscio, verso una rivoluzione copernicana. Quando avviene, il benessere della persona diventa centrale e gli echi delle riattivazioni conflittuali danno meno fastidio. Sul finire dell’analisi, tali residui sono inoffensivi compagni di viaggio, come le allucinazioni stabilizzatesi del matematico John Nash, Premio Nobel per l’economia (1994), alla fine dello splendido film A Beautiful Mind (2001). Ciò che scrivevo nel 2012 (vedi convegno cit.), è l’attuale mio modo naturale di lavorare.
In chiusura. Presento uno stralcio di verità sinergica, ritessutasi in Vera, a conferma di un’analisi conclusa: Non ho più niente da dire… Mi rimane solo da vivere… Sento finita questa seduta… E, utilizzando il tempo rimastole, elabora: Sto sentendo la mia analisi come un contenitore buono con pensieri e sentimenti omogenei e naturali in me e sono anche contenta di averle dato una buona seduta, così avrà un bel ricordo di me. (v. anche Lopez, 2020). Le ultime associazioni sono dense di emozione: La ringrazio dell’aver preso in carico questa struttura imbevuta di distruttività e dolore… e anche per la caparbietà, energia e generosità che ha dato a questa lunga analisi. Le voglio bene! Condivido con Speziale-Bagliacca (2010) l’importanza che il paziente esprima la sua gratitudine in un “abbraccio che si può restituire” (p.151), in coerenza con la fine dell’analisi dove desiderio e realtà dialogano con forza di verità, dopo l’attraversamento “di uno stesso scenario emotivo” (Stern, 2004, tr. it. 2005, p. 204). La fine del rapporto analitico non è, sempre, solo castrazione in cui si tacita il fantasma a vantaggio del rapporto oggettuale. È anche un rapporto esauritosi, proprio perché vissuto attraverso la comunicazione inconscia di cui ho un po’ parlato.
“E’ il punto dell’abbandono”, scrive Jean-Luc Nancy, in un bellissimo saggio sul Noli me tangere (2003, tr. it. 2005), finalmente interpretato come ultimo fulcro di un rapporto, preludio di movimenti autonomi, che dà ragione a quel mio lontano desiderio controtransferale: “La Maddalena del Noli me tangere, si abbandona a una presenza intensa (p.71) che è una partenza (p. 62)”. E non ha più bisogno di resistervi, perché nel ruolo che Cristo le affida di andarlo a dire agli altri c’è già una condivisione. Così succede quando l’analizzato va nella sua vita di realtà, dopo aver interiorizzato il senso di ciò che ha vissuto. La persona che si è sentita percepita, riconosciuta e capita, può nascere infine psichicamente come verità, frutto di una gestazione cibatasi della riattualizzazione di elementi vitali e di conflitti onto-filogenetici (sul “Transgenerazionale”, consiglio Cheloni 2017, 2020). Questo Noli me tangere, nel significato più arcaico non trattenermi, non aggrapparti a me (in Gariglio 2000, pp. 51-52) piuttosto che non mi toccare, dal latino tango…, mentre ridà, al campo analitico, la possibilità di rifarsi vuoto, sposta nella vita reale, desiderio pulsionale e tentativo di contatto. L’esperienza psicoanalitica scolpisce nel corpo e anima una nuova lingua, più neutra ma non per questo meno vera. Neutralizzate sofferenza colpa nostalgia recriminazioni contenziosi, la persona può concentrarsi su ciò che le è rimasto. Questa sarà la sua verità da esprimersi nei rapporti di realtà, ricercando distensione e nuovi spunti di vita. Ho lasciato la mia coppia genitoriale in un angolo, dice un analizzato staccatosi dalla fissazione edipica ma, anziché patire la solitudine del silenzio analitico, mi sono solo sentito vivo. Questa è la mia verità, ora. Da parte mia, ascoltandolo, ricordo di aver condiviso quel respiro di sollievo.
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Parole chiave: – adattamento – benessere psicobiologico – elaborazione ricombinativa – ibrido come integrazione.
i Per lo psicoanalista freudiano, scrive giustamene il giornalista-scrittore, Carlo Verde (1996, p. 18) “ogni biografia reca sempre una parte di chi l’ha scritta o perché il biografo vi si è specchiato dentro, o perché ha tentato di rispondere, a dubbi e domande proprie, descrivendo un’esistenza e calandovisi dentro”. Ce lo conferma, interrogandosi in merito ai moventi personali e soggettivi di una sua originale biografia di Ravel (complessa figura le cui verità umane sono di difficile comprensione, compresa la malattia cerebrale che ne oscurò il genio creativo fino alla morte). Aldo Carotenuto, invece, nella sua prefazione all’opera di John Kerr (1993) che narra la storia di Sabina Spielrein tra Jung e Freud non si occupa tanto dei ‘moventi personali’ dell’autore di una biografia, bensì dei “significati simbolici che superano la stessa vicenda narrata e che invece sollecitano l’approfondimento da parte di quanti (storici, clinici, artisti) si interrogano sul destino delle passioni e del loro potente influsso nel determinare non solo le storie individuali ma la storia stessa di un pensiero, la sua luce e le sue ombre, l’evoluzione di un movimento” Il tutto forgiato “della stessa materia psichica di cui si nutrono i complessi, le memorie, le vicissitudini intime e gli oscuri paesaggi dell’anima…” (Prefazione a Un metodo molto pericoloso, p. XII). Ovviamente ne concordo, a patto che ci si occupi dell’aspetto collettivo successivamente al re-incontro (più o meno lungo) con gli aspetti pulsionali onto/filogenetici, sessuo-aggressivo-creativi che inducono coazioni a ripetere dolorose e ripetizioni di tematiche di tradizione familiare, alcune neutre, altre di benessere rimessosi in circolo.
ii A proposito della “saggezza”, nel discorso che stiamo facendo in merito all’ “adattamento”, Eugenio Borgna (2019, p. 128, in Loretta Zorzi Meneguzzi 2020 p. 126, nota 12) scrive: “La saggezza come itinerarium cordis […] fragile scialuppa mediatrice di conoscenze nel mare dell’indifferenza e dell’aggressività”.
iii Rimando a due pionieri in merito al valore della soggettività, Sandor Ferenczi, rivalutato dai lavori di Franco Borgogno (ad es. 2012, cap. 8-12 pp. 144-215 o 2015 e 2020, pp. 28-36) e Theodor Reik, uno degli allievi più creativi di Freud, introdotto da Duccio Sacchi (2010) in Theodor Reik e il “terzo orecchio” in cui viene visualizzata, nel gioco “dell’illuminazione reciproca degli inconsci, la sincerità interiore”. Anche Borgogno evidenzia in Reik (presentato da Sacchi) che, nella sua opera, la soggettività di chi fa ricerca sull’uomo occupa il primo posto. Nella Rivista Anamorphosis dove ho socializzato e approfondito (n. 7-13, 2009-2015) il tema della creatività come benessere psicobiologico in un lavoro su alcune impressioni di un viaggio in Siria (2008), avevo puntualizzato detto ascolto col “terzo orecchio” (Reik, 1948) come “il tentativo di integrare le vibrazioni pulsionali, sessuo-aggressivo-creative, con quelle spirituali” (Gariglio 2009, p. 38). Oggi, rispecifico queste ultime da un punto di vista analitico come tendenza al benessere psicobiologico del campo analitico, tenendo presente che, dall’elaborazione analitica si origina una specie di voce ibrida (vedi nota 5).
iv Nel lavoro clinico, intendo il “proprio originale” come “nuova nascita, frutto di un processo di “elaborazione ricombinativa” (Gariglio, Lysek 2007) e di resilienza” (Gariglio, 2009, pp. 18-28) che, da “postanalitico”, testimonia, oltre alle identificazioni analitiche, il piacere personale d’essere creativi, come tentativo di fatti coerenti con i desideri focalizzati (Gariglio, 2011 “La tessitura di un “proprio originale”, presupposto di incontri adulti”, in Identità e trasformazione, Gariglio, Ravaschietto. International Association for Art and Psychology, IDENTITA’,DIFFERENZE? Arte e Psicologia si confrontano; in PeS, https://www.psicoanalisi.it/osservatorio/identita-e-trasformazione-la-tessitura-di-un-proprio-originale-presupposto-di-incontri-adulti-parte-prima/3961/ ). Freud in Caducità (1915, pp. 173-76), parlando di quel tipo di lutto che “si estingue spontaneamente”, indica una “libido di nuovo libera di rimpiazzare gli oggetti perduti con nuovi oggetti, se possibile altrettanto o più preziosi ancora.”.
v Rimando ad un lavoro “sull’Ibrido (Gariglio, 2011a, pp. 35-55… 69) “come immagine universale”, elaborata anche insieme (pp. 68-69) all’archeologo Pietro Rossi (pp. 56-67) e richiamata da Gariglio, Lysek, Rossi (2011, pp. 182-3-186), per evidenziarne l’analogia immagine-linguaggio associativo, come sintesi e manifestazione di “punto di forza”, occasione di “potenziamento”, dicendolo con Cavalli Sforza (2010, pp. 46-47) che parla di “vigore degli ibridi”. Riflettendovi in seno alla trasformazione personale, dopo la prima elaborazione del “vissuto conflittuale” (Marzi G. 2008, Zappellini 2009, Anati 2010, Bolmida 2010, Marzi B. 2011…), dato dalla coesistenza di aspetti diversi, se l’ibrido viene poi sentito come integrazione, ciò genera un diverso modo di porsi, con un linguaggio nuovo e specifico con cui testimoniare il piacere di una verità trasformativa che, nel caso dell’analista, come scrive Antonino Ferro (2010, pp. 2-3, 21…), ne diventa un percorso, solo se questi “investiga” vive e riconosce le emozioni.
vi Tentando anche di colmare il divario tra fede e ragione, presenta una “nuova concezione del sacro, perso, scrive, per troppo riduzionismo scientifico e di un Dio, calato profondamente nella natura”. Una visione – ed ecco qui la sua verità originale – che, “travalicando la scienza, invita a vedere Dio, il sacro e noi stessi, con occhi nuovi, includendovi la scienza, l’arte, l’etica, la politica e la spiritualità” (Dalla Prefazione)
Daniela Gariglio, 2 dicembre 2021