Interazioni e tracce

Si propone l’articolo del nostro Maestro, Nicola Peluffo, Interazioni e tracce, precedentemente pubblicato da Tirrenia Stampatori nel Bollettino dell’Istituto Italiano di Micropsicoanalisi n° 21 del 1996.

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Sovente, durante le sedute di più ore, mi accorgo di star seguendo l’andamento delle associazioni in rapporto al loro movimento di allontanamento o avvicinamento rispetto al nucleo rimosso che tenta di emergere alla coscienza. Le associazioni sono convergenti o divergenti e a volte l’allontanamento dal nucleo rimosso è tale che si ha l’impressione che le connessioni tra alcune di loro vengano catturate da un altro nucleo più lontano e nascosto. Un poco quello che succede ai così detti corpi celesti dalle cui deviazioni dalle orbite osservate e calcolate si può dedurre l’esistenza di altri corpi di cui i primi subiscono l’attrazione, senza tuttavia poterli osservare direttamente.

Per usare la terminologia scelta da Marvin Minsky (M. Minsky, “La società della mente”, Adelphi, Milano, 1990) sembra che uno degli agenti che stava per intervenire per completare la rievocazione e il passaggio alla coscienza del materiale dimenticato o rimosso cambi velocità ed entri nell’orbita di un’altra agenzia che sta facendo il lavoro opposto, cioè invece di costruire il puzzle del rimosso lo smonti. Per comprendere meglio quello che scrivo, sarebbe utile (per chi non l’abbia ancora fatto) scorrere il libro di Minsky che ho citato e soffermarsi su alcuni concetti, per esempio quello di mente, di agenti e di agenzie, che pur essendo utilizzati in un contesto concettualmente diverso, apportano delle indicazioni estremamente divertenti e utili rispetto alle applicazioni che se ne possono fare in un contesto psicoanalitico e micropsicoanalitico.
Il postulato di base per Minsky è chiaro: “La mente è semplicemente ciò che fa il cervello” (op. cit., p. 20) e poi aggiunge: “La domanda che conta è: che cosa fa il cervello?”.
Se il discorso finisse a quel punto dovremmo allora farci la domanda che io ho posto a me stesso e agli studenti che frequentavano i miei corsi di psicologia dinamica: “A che scopo studiare una scienza che definiamo con il termine psicologia se la mente è semplicemente una funzione del cervello?”. Se entrassimo in una prospettiva speculativa potremmo ancora chiederci se psiche e mente sono la stessa cosa; io mi limito a citare il “Dizionario di psichiatria” di L.E. Hinsie & R.G. Campbell (Astrolabio, Roma, 1979) in cui alla parola “mente” è indicato “vedi psiche”, e poi nella definizione di psiche è scritto: “Psiche (psy-che). Mente. Secondo Bailey, in una prospettiva neuropsicologica, meccanismo per la trasmissione di segnali che arrivano agli organi di senso periferici, vengono trasmessi dai nervi sensoriali come pulsazioni di potenziali elettrici al sistema nervoso centrale e vengono integrati e riflessi sui nervi motori, dando luogo ad un comportamento manifesto” (in G. Benedetti).
“Psiche” è usato in genere come sinonimo di “mente” e “psichico” di “mentale”.

Per Bailey quindi la psiche è un meccanismo per la trasmissione di segnali che vanno dalla periferia al centro per poi scaricarsi in un comportamento motorio. Un discorso molto semplice, non molto diverso da quello che faceva Freud in “Progetto per una psicologia”, scritto nel 1895 e pubblicato postumo (ed. it. Boringhieri, Torino, 1976) che penso, almeno da un punto di vista operativo, sia gli psicoanalisti che i micropsicoanalisti possano integrare
nel loro campo di lavoro. Minsky accetta l’idea neurologica di base che però amplifica verso la psicologia, almeno come scienza della spiegazione (epistemologia) in modo considerevole; ecco le sue parole: “… una cosa è certa: il cervello umano è una vasta società organizzata, composta di molte parti diverse. Dentro il cranio dell’uomo sono stipati centinaia di tipi diversi di motori ed organizzazioni, meravigliosi sistemi evolutisi e accumulatisi nel corso di centinaia di milioni di anni. Alcuni di questi sistemi, ad esempio le parti del cervello che ci fanno respirare, funzionano in modo pressoché indipendente. Ma nella maggioranza dei casi queste parti di mente devono convivere con le altre, in un rapporto che è a volte di collaborazione, ma più spesso di conflitto”.
Minsky pronuncia la parola fondamentale: conflitto. Gli esempi che fa a vari livelli sono molto interessanti. Egli immagina un bambino che con dei cubetti costruisca una torre; definisce l’agente che opera in quel bambino (la funzione del costruire) Costruttore, immagina poi che a quel bambino non piaccia solo costruire ma anche distruggere, per cui vicino all’agente Costruire ve ne sarà anche un altro, il Distruggere (cioè la funzione di distruzione che opera l’azione del distruggere). Immaginiamo poi che l’oggetto da distruggere non sia ancora stato costruito, l’agente Distruggere dipende da quello Costruire. La costruzione ha inizio, può succedere però che ad un certo punto la torre di cubetti da buttare giù sia già abbastanza alta per Distruggere, che vuole procedere, e non per Costruire (che ci ha preso gusto). Si crea un conflitto tra Distruggere e Costruire. Potremmo pensare “ma è Distruggere che ha chiesto l’opera di Costruire, quindi comanda”, tuttavia se consideriamo un altro agente di livello superiore, Giocare con i cubetti, è chiaro che il conflitto tra Costruire e Distruggere può intralciare la funzione Giocare con i cubetti, che a sua volta può essere inserita in una funzione più ampia, p.e. Giocare, e questo agente Giocare può stare in mezzo ad altri due, Mangiare e Dormire. Ed ecco che il conflitto tra Costruire e Distruggere che rende antieconomico il gioco, che si è permeato di ambivalenza, può indurre il giocatore a ripiegare sull’agente Mangiare e/o su quello Dormire.
Nel discorso testé esposto, si usano delle ripartizioni di comodo che sono quelle introdotte da Minsky in un modello di Mente ricalcato su quello cellulare (cerebrale). Cioè una Mente che in realtà è un insieme di “menti” che possono funzionare in sinergia ma che entrano in conflitto tra loro. Un concetto molto simile a quello fantiano di tentativi, insiemi di tentativi ed entità; il fatto è che in pratica il contenitore è unico.

In conseguenza di codesta unicità, per essere più precisi ed eliminare il finalismo che inevitabilmente si introduce quando si costruiscono delle metafore più o meno antropomorfiche (gli agenti, le agenzie, ecc.) non credo si possa affermare che esistono delle agenzie che costruiscono ed altre che smontano (come dice Minsky) ma semplicemente delle variazioni di direzione e di velocità dei vettori, siano
essi associazioni verbali, dinamiche (nel senso della fisica), comportamentali, ecc. In altre
parole lo stesso movimento che monta il puzzle (come una costruzione fatta di cubetti o
blocchetti che siano) può smontarlo quando cambi il vettore di direzione del movimento, e/o quando la velocità dei movimenti diventi incoerente con l’espletamento dei meccanismi di regolazione che controllano la funzione, ad esempio del mettere e del levare. In termini psicoanalitici, la costruzione di un insieme rappresentazionale-affettivo, diventa impossibile quando la quantità e la velocità dell’investimento dell’energia
sui legami tra le singole parti dell’insieme rappresentazionale-affettivo (p.e. colpire avversario) non è abbastanza elevato e stabile (p.e. troppo veloce).
In altre parole affinché un’azione oppure un pensiero sia iniziato e concluso (ed eventualmente distrutto) la regolazione interna che mantiene il coordinamento spazio-temporale non può oscillare oltre certe soglie vettoriali (direzione e velocità). Cioè, p.e.,
per ogni movimento verso una certa direzione (o scelta anche involontaria) può esistere
un movimento in senso contrario ma affinché l’azione si concluda (cioè non fallisca completamente) il movimento in senso contrario deve avere una energia di spinta inferiore
all’altro movimento. Noi psicoanalisti e micropsicoanalisti lo verifichiamo continuamente in seduta nella dinamica dei movimenti associativi (di cui ho parlato all’inizio di queste riflessioni) e nell’organizzazione delle resistenze, in quanto forze d’inerzia della rimozione. J. Piaget direbbe che il gruppo degli spostamenti deve acquisire un equilibrio relativamente stabile.
E ritorniamo sempre alla questione degli equilibri che ci porta alla molteplicità delle funzioni e, per tornare alla spiegazione cara a Minsky, al funzionamento delle interconnessioni che collegano i vari agenti indipendenti (Trovare, Prendere, Mettere, ecc.) che fanno parte dell’agenzia Costruttore. Costruttore, in termini micropsicoanalitici, cioè di Fanti, è un’Entità, un insieme di “essais” (tentativi), composti di “essais” (agenti) ancora più elementari, a loro volta scomponibili, ecc. È anch’esso un modello cellulare (S. Fanti è un medico e fu uno studioso del cervello e del suo funzionamento) che diventa poi atomico e subatomico e “particellare” solo più tardi quando si fa strada in lui il concetto di vuoto.
Un’Entità (Agenzia) sia essa psichica o materiale, o mentale o psicobiologica è composta di un insieme di sottoentità elementari più semplici (relativamente) che “svolgono il lavoro” separatamente ma interconnesse. Ognuna fa la sua parte, nessuna conosce l’intero piano che è stato ordinato ad un’Agenzia che direttamente non lo fa perché il piano lo richiede un’altra Agenzia che a sua volta fa parte di una relativamente più grande o
relativamente più piccola (in un confronto di grandezze anch’esse relative) e così via. Un ipotetico osservatore esterno che volesse studiare tutto il fenomeno, probabilmente non capirebbe niente se studiasse i singoli agenti o le Agenzie (in parole micropsicoanalitiche i singoli “essais”), capirebbe di più se centrasse la sua attenzione sulle interconnessioni tra i vari agenti e le interazioni tra le varie Agenzie, che oltre un certo grado di
complessità sono continuamente mutevoli, sovradeterminate. Cioè sono interconnesse a vari livelli sulla base di piccoli dettagli comuni. In questo senso la psiche è una famiglia di funzioni interconnesse. Non è strano che abbia delle difficoltà a capire se stessa, nella sua totalità. Segue il destino del cervello.
È un dato banale ma che vale la pena di essere meditato, il fatto che il cervello, che è l’organo di conoscenza per eccellenza, al punto che, non solo per i neurologi ma anche per la maggior parte degli psicologi moderni le funzioni cognitive e quelle affettive stanno al cervello come la digestione sta allo stomaco, non sia in grado di conoscere se stesso ed il proprio funzionamento se non con un faticoso e lunghissimo lavoro in cui è implicata l’intera Entità psicobiologica (o Agenzia) uomo.
Quindi la funzione percettivo-sensoriale e quella cognitiva servono a studiare il funzionamento del cervello e della sua funzione, la mente, che più o meno non sanno come funzionano. È un ragionamento che sfiora il paradossale e persino il ridicolo eppure non mi sembra facilmente confutabile. Mi sembra, quindi, che la funzione cognitiva del cervello serva a studiare il funzionamento del cervello che, in apparenza, non sa come funziona. La mente che è “ciò che fa il cervello” serve al cervello per cercare di conoscere se stesso. Tante “piccole menti parziali” con piccoli compiti che funzionano più o meno in sinergia risolvono tanti piccoli compiti che ne compongono uno relativamente più grande che è risolto, ma non si sa come. Un po’ quello che succedeva alle catene di montaggio funzionanti nell’industria in cui un singolo lavoratore faceva il suo pezzo, senza a volte sapere che fine avrebbe fatto. Il problema è: l’uomo inventa la catena di montaggio perché il suo cervello funziona in quel modo, oppure è il contrario, cioè concepisce il suo cervello come una catena di montaggio? In altri termini, noi spieghiamo il funzionamento del cervello e delle agenzie che compongono la mente come una catena di montaggio perché nella nostra produzione manifatturiera abbiamo semplificato la costruzione di oggetti complessi dividendoli in parti e riducendo i compiti complessi a compiti più elementari, assemblandoli in una serie di produzioni di catena, oppure funzioniamo così perché non possiamo funzionare in un altro modo? Io penso che l’ipotesi più probabile sia la seconda, almeno se si considera un oggetto specifico, poiché, almeno per il modello di Fanti al quale io aderisco, le entità sono composte di tentativi elementari che a loro volta sono quantità (con le loro qualità) discrete anche se appartenenti ad un tutto dinamico.
Un insieme di tentativi è tale, e si automantiene e riproduce come l’essere umano, se i meccanismi di regolazione che funzionano al suo interno (le difese psicobiologiche) sono riusciti a comporre i conflitti più importanti tra i tentativi elementari che compongono gli insiemi e le entità (le cellule ed i sistemi di cellule per esempio). Lo stesso discorso che vale per le cellule ed i sistemi di cellule vale anche per le altre entità psicobiologiche, i pensieri, le emozioni, i desideri, i sogni.


Io penso veramente che la Mente (Psiche) ed il Cervello siano l’espressione di un fenomeno associativo, gravitazionale (almeno in senso figurato) più vasto simile a quello che
obbliga le polveri cosmiche a costituirsi in insiemi e che mantiene la coesione tra le varie parti dei corpi celesti, e quando ci siano le condizioni, lascia apparire quel fenomeno
di fermentazione che noi chiamiamo vita. La Mente e il Cervello si sono costruiti tramite
il lavoro di un insieme di meccanismi di regolazione senza ragione alcuna, diciamo per
caso, e continuano a lavorare nello stesso modo in cui hanno lavorato i meccanismi che
li hanno messi assieme, cioè a comporre dei conflitti per mantenere un’omeostasi adatta alla sopravvivenza per il tempo sufficiente a rinnovarsi: una vita. Gli agenti e le agenzie continuano a lavorare (non possono fermarsi) e la vita dell’essere umano diventa sempre
più lunga e i problemi sempre più complessi, i quadri di riferimento sempre più vasti e, di
conseguenza, le necessita di frazionamento dei compiti sempre più pressanti. A quadri
più vasti corrispondono frazionamenti sempre più microscopici e lontani dalla comprensione dell’uomo comune che in confronto ai suoi prodotti (tecnici) diventa sempre più ignorante ed alienato (nel senso di alieno), estraneo ed in rottura con la realtà in cui vive, cioè psicotico. La scena che mi viene alla mente (quasi visiva) sono le vaste masse di “giovani sradicati” che girano senza apparente direzione nelle vie principali delle città specialmente al sabato pomeriggio. Una scena da realismo sovietico con toni da espressionismo tedesco, specie nei volti dei personaggi: volti intrisi di smarrimento e di paura. L’essere umano moderno è roso dalla paura solo che in gran parte non se ne accorge; non sa perché ha paura e cerca delle cause che normalmente sono ritrovate per contiguità come nel ragionamento dello schizofrenico. Oppure, e sono certamente le persone più intelligenti, comprende che gli argomenti che gli servono per spiegare la sua paura sono pretesti, avvenimenti o fatti o fenomeni sproporzionati alla sua angoscia e va alla ricerca di cause più credibili tramite le tecniche di analisi della psiche (mente). Oppure cerca di operare sulle cellule, cioè sul cervello, usando sostanze chimiche dalle più semplici (il vino, le piante tranquillanti o allucinogene, ecc.) oppure
le specialità farmaceutiche.
In entrambi i casi cerca di usare delle agenzie e degli agenti che rimettano ordine nelle interazioni tra i lavori presenti e passati che accadono in lui. Nel caso dell’azione verso la mente cerca di eliminare i nodi conflittuali che esistono tra il pensiero e l’emozione, in modo che la paura appaia solo quando ha la funzione di un meccanismo di regolazione che assicura la sopravvivenza e verifica la realtà (p.e. non buttarsi da una torre alta cinquanta metri pensando di volare come gli uccelli, oppure come si può fare in sogno) e non quando non è necessaria o anzi è nociva (non poter mangiare un certo cibo anche quando sia l’unico disponibile); nel caso dell’azione sulle cellule cerca dei mediatori chimici che facciano più o meno la funzione di un capo-traffico in una stazione ferroviaria. In entrambi i casi si tratta di ripulire e riordinare le tracce che assicurano le interconnessioni adatte perché le interazioni funzionino in accordo con il reale, cioè con il compito da svolgere che garantisce l’adattamento con il minor uso di energia possibile.

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Bisogna quindi affrontare il problema della traccia che io intendo come un’impronta che una volta impressa può servire da sentiero quando il futuro agente espleta il suo lavoro. Lo fa, più o meno bene, seguendo una traccia in un labirinto e si trova alla fine con un risultato senza sapere bene cosa è successo e perché prova l’emozione (o sentimento) che prova. Il bello è che anche l’agenzia (entità psico-biologica, essere umano) può provare il sentimento che prova l’agente in completa dissonanza con ciò che, in una situazione simile, statisticamente si dovrebbe provare.


Per esempio Costruttore sta per mettere in moto gli agenti che costruiranno
la torre di cubetti ma una paura, anzi un’angoscia indicibile, gli impedisce di
girare la chiavetta della messa in moto. Il problema è che quasi sempre la
macchina è già partita e Costruttore (Homo faber) si trova a dover mettere
in moto una moltitudine di altri agenti per gestire la paura (preferisco parlare di paura anche se non è un termine molto preciso, perché è di uso comune,
molto più di ansia o angoscia). Quando si verifica una situazione simile, con un linguaggio freudiano si parla di ritorno del rimosso sotto forma di sintomo e di conseguente inibizione totale o parziale ad eseguire il compito. Se l’azione fosse interrotta l’angoscia cesserebbe (ciò che si manifesta nella fobia) il problema è che nella maggior parte dei casi il soggetto Costruttore ha l’intuizione dell’assurdità della risposta non adeguata allo stimolo e mette in atto delle procedure per continuare a costruire. Si crea un conflitto tra agenti, alcuni si fermano intralciando il lavoro che diventa molto più dispendioso (in termini energetici) mentre altri continuano e
nell’agenzia serpeggia la paura che può trasformarsi in angoscia, sino al terrore e al marasma.
Se come osservatore (neutro) ci chiedessimo che cosa sta succedendo, la risposta più semplice che potremmo darci sarebbe che Costruttore sta facendo un errore di interpretazione. Inserisce una variabile pericolosa in un compito in cui essa non esiste e quindi per eliminare la sua paura basterà spiegargli il fenomeno nei particolari del suo svolgimento. Ma se esso ci darà la dimostrazione di conoscere perfettamente le procedure, di essere al corrente della non pericolosità dell’operazione ma di provare lo stesso una grande paura, saremo costretti a ipotizzare almeno due possibili soluzioni. La prima è
che la paura del Costruttore provenga da uno (o più) tra i suoi agenti di cui egli non conosce l’esistenza (una delle sue microscopiche menti ha paura), l’altra è che nessun agente abbia paura ma che l’esperienza di paura esista nelle vie di interconnessione tra agenti ed interazione tra le agenzie. In altre parole che l’esperienza che ingenera il vissuto di pericolo imminente e quindi la paura, come difesa, esista come energia potenziale di un’azione non espressa in quanto pericolosa, in una delle tracce (strade) che gli agenti percorrono. È il non espresso che si sta per esprimere che ingenera la paura. La
metafora che penso è una strada con un bivio e una gamba alzata nel passo, che se calasse, forse, si poggerebbe su una mina antiuomo. La mina è ormai anacronistica ma la paura che serve a non abbassare la gamba è rimasta sul posto: è “verdrängen” cioè nonmossa, o come si dice impropriamente, rimossa. Un movimento non concluso ma che uno tra i tanti agenti potrebbe fare mentre il Costruttore aspetta che la costruzione si concluda. Anche perché nella gamba, come in una molla in tensione, urge la necessita di distendersi, tanto più che l’intero sistema delle agenzie deve usare una certa parte della sua energia per trattenerla. Naturalmente la gamba è metaforica ma la tensione non lo è. In quella strada, come nei castelli inglesi, è rimasto il fantasma della distruzione e quando un segnale (un agente) passa di lì, trascina nell’agenzia l’atmosfera di quel bivio. Un’azione non conclusa, una tensione non risolta. Tutti sanno ciò che avvertono nel loro insieme psicobiologico quando proclamano (sovente facendo una smorfia con il viso e le spalle) di sentirsi in tensione, pochi però vanno a dare un’occhiata ad un dizionario di fisica per sapere ciò che dicono, e le eventuali conseguenze di quello che dicono di avvertire. Se consultiamo il “Dizionario di Fisica” della Oxford University Press (ed. it. Sperling & Kupfer, Milano, 1992) leggiamo (p. 244) la seguente definizione: “Tensione: forza per unità di superficie di un corpo che tende a deformarlo (vedi deformazione).


È una misura delle forze interne che in un corpo agiscono tra le particelle del materiale di cui è costituito e che si oppongono alla compressione o alla separazione, oppure scorrono in risposta a forze applicate all’esterno… ecc.”. La definizione di deformazione (op. cit, p. 62) è la seguente. “Deformazione: quantità che esprime la variazione di forma di un corpo sottoposto all’azione di uno sforzo.., ecc.”. Ed è chiaro che quando si inizia
bisogna andare avanti, quindi “Sforzo: forza per unità di superficie che tende a deformare un
corpo. Gli sforzi costituiscono una misura delle forze che agiscono all’interno di un corpo
(forze interne) opponendosi alla separazione, alla compressione e allo scorrimento relativo delle particelle che costituiscono il corpo stesso… ecc.”.
Per cui quando un essere umano si sente in “tensione” intende dire che sta avvertendo
delle variazioni di forma, cioè delle deformazioni dovute al fatto che le forze che stanno
deformandolo sono arrivate vicino ad una soglia oltre la quale inizierà la scomposizione
nelle sue particelle elementari psicobiologiche. La sua unità mente-cervello sta per
scomporsi. Forse si potrà ricomporre ad un altro livello (come nei terremoti), forse la
tensione interna si ristabilirà ad un livello che non permetterà il mantenersi del fenomeno “vita” per l’intera entità.
Ma ritorniamo alla situazione. La nostra entità psicobiologica indicata con il nome di Costruttore sta lavorando tramite gli agenti all’espletamento di un compito: deve costruire
una torre di cubetti, oppure una passerella su un rigagnolo, preparare una conferenza,
una torta per un pranzo importante, insomma sta per eseguire un compito relativamente
abituale e ha paura; una paura che prova ogni volta che la “storia” si ripete. Sa già che
tutto finirà bene però ha una grande preoccupazione, un’ansia fastidiosa, un segnale di
pericolo che lo sveglia alla notte e che a momenti si trasforma in manifestazioni d’angoscia anche somatiche (vomito, dolori più o meno specifici, diarrea, eccetera). È necessario soffermarsi sulla variabile “ripetizione”. Cioè si tratta di un compito non svolto per la prima volta, di una paura già provata molte volte, di una situazione sovente superata e risolta felicemente. Ma non emotivamente. Il cosiddetto “ricupero dell’esperienza” in
questo caso non funziona e la paura si rinnova: eppure la mina antiuomo non è mai esplosa e il Costruttore non è mai esploso. Ora i casi sono due: 1) l’esplosione è avvenuta in altri modi ed in altre epoche ed è rimasta un’impronta fissata nella traccia memorizzata; 2) l’esplosione non è mai avvenuta ed è rimasta la paura che essa avvenga in quanto desiderio (necessità direi) della gamba di distendersi, della molla di scattare, e dell’intero sistema di risparmiare energia.
Nel primo caso l’esplosione è entrata nella successione spazio temporale ed ha lasciato dei residuati mnestici ancora agenti nel circuito stimolo-risposta, nel secondo caso non è mai avvenuta, è sempre “in agendo”, senza agire, e rimane fuori dalla successione spazio-temporale poiché si tratta di un fatto mai successo, ma che sta sempre per succedere. Una spada di Damocle, un sogno d’angoscia da svegli. La questione, in entrambi i casi, è perché e come si manifesta l’emozione contingentemente errata nella situazione attuale oggettivamente non pericolosa. Secondo me la manifestazione avviene in entrambi i casi seguendo una linea associativa che cattura lungo le strade di interconnessione, i canali di interazione tra i vari agenti e le varie agenzie che circondano il Costruttore, certi attributi che ricordano l’esplosione avvenuta o quella che potrebbe succedere, unite, fuse nel movimento di fuga di cui la paura è il primo segnale. Paura quindi come difesa da un pericolo corso, fissato traumaticamente, oppure solo potenziale nel rinnovarsi degli effetti di quello avvenuto trasportati per associazione (tramite attributi parziali) su quello che sta per accadere ma rimane “in agendo”. Chi ha paura, è angosciato perché deve fare una torta, ma la fa lo stesso, usando un’enorme quantità di energia, in definitiva opera contro il fantasma in un enorme sforzo di verifica della realtà. Cerca cioè di operare una distinzione tra l’esperienza e la consapevolezza che l’esplosione era già avvenuta e la situazione è un’altra, è un’informazione strisciante tramite un attributo associativo che è passata nel luogo della paura (dove la molla è in tensione) e ha colorato di paura (vedremo poi l’esempio della fiammata dello sparo di un fucile) la luce della situazione attuale innocua. Una specie di distorsione nella successione degli avvenimenti, nel tempo.
Il tempo consiste nella verifica della successione degli avvenimenti e della loro durata. Specialmente della successione. Per esempio, la fiammata del fucile, all’alba, viene percepita visivamente prima di udire il suono dello sparo. Mi sembra quindi che il tempo esista a priori nella velocità di manifestazione del fenomeno, che ha delle proprie leggi, indipendenti dall’osservatore. Cioè il fenomeno luminoso e più veloce di quello sonoro.
Mi sembra che per l’osservatore una verifica del tempo esista nel confronto tra la velocità di apparizione dei due fenomeni, quando essi siano abbastanza vicini da poter stabilire tra loro un nesso causale di probabile verità. Cioè, affinché l’intervallo tra la luce ed il suono sia una misura di tempo, deve esistere la possibilità di stabilire tra i due fenomeni un ordine gerarchico di successione, dal quale, nel caso di fenomeni costantemente osservabili, per esempio il lampo e il tuono, si può stabilire una gerarchia di apparizione che crea, all’interno della continuità lampo-tuono, delle dicotomie in cui la classe dei lampi confrontata con quella dei tuoni è generalizzata in un’astrazione che ci indica che il lampo avviene prima del tuono. Supponiamo che il nostro Costruttore abbia osservato ripetutamente il fenomeno quando era un bambino di tre, quattro anni e che abbia memorizzato la sequenza dell’azione della caccia “fiammata-rumore-caduta della preda volatile-morte dell’uccellino” e che questa esperienza si sia associata all’osservazione
del dito del cacciatore che tira il grilletto e che il particolare su cui si accentrava l’attenzione del bambino sia stato il luccichio di un anello al dito del cacciatore che brillava nel momento della fiammata; è possibile che si crei una serie di equivalenze per cui l’esperienza di morte è richiamata dal luccichio di un anello e poi persino dalla parola “anello” unita a quella “brillante”: un anello di brillanti potrà provocare una sensazione di paura.
Ci troviamo qui nel primo caso in cui l’esperienza si è compiuta, la successione spaziotemporale e stata rispettata, il fatto è avvenuto (non rimosso) e dimenticato specialmente per quanto riguarda i nessi tra la successione degli avvenimenti, cioè le operazioni degli agenti con i loro attributi. Lo stesso fenomeno, cioè l’esperienza di paura nella situazione attuale, può verificarsi quando alla successione degli avvenimenti si accompagni un’azione di “verdrängug” (rimozione) e cioè uno o più attributi della serie di fatti descritti vengano utilizzati per comporre un desiderio che dà una forma ad una spinta aggressivo-distruttiva, che rimane interrotta, cioè sul posto: in agendo e non agita. Fuori dal tempo perché non entra nella successione dei fatti, non essendo accaduta. Per esempio un ipotetico dito del figlio rimane teso sul grilletto (ipotetico) di un fucile rivolto verso il padre-rivale. Banale ma efficace. È infatti la paura che blocca il dito teso sul grilletto senza farlo scattare. Ma che operazione faticosa più tardi per riuscire a compiere l’azione di comperare “l’anello con brillante” per la fidanzata! Essa mette in moto tutta la successione dalla fiammata del fucile sino alla morte dell’uccellino e alla tensione del dito che sta teso sul grilletto. Diciamo che quell’agente che deve far scattare il grilletto trasmette tutta la sua tensione all’intera struttura che lo blocca. La paura è l’espressione cosciente di tutta questa avventura, e serve a non far compiere un’azione ad un agente ignaro di tutto ciò che succede. È una difesa che insorge a sproposito ed è applicata all’azione sbagliata per quasi tutti gli attributi, meno uno (o qualcuno).
La tecnica dell’inganno è una difesa molto corrente in natura. Il mimetismo, il mascheramento in tutte le sue forme (dalla bugia, al diniego, alla negazione, al rovesciamento nel contrario, alla formazione reattiva, ecc.) sono modalità difensive correnti. Persino in sogno si usano delle tecniche di mascheramento e di censura che costruiscono un quadro di realtà onirica ingannevole (a prescindere dalle interpretazioni), se confrontato con la
realtà di veglia. Sembra che esistano certi momenti nei processi di adattamento in cui il travestimento della realtà e la creazione di illusioni sia necessario.


Joseph Le Doux in parecchi suoi lavori, riassunti nell’articolo:
“Emotion, memory and the Brain” (Scientific American, june 1994,
pp.32-39), parlando della memoria dell’emozione e specificatamente della paura descrive certe esperienze di condizionamento eseguite al solito modo
(scossa elettrica accompagnata da luce e suono). Le risposte che
dimostrano l’esistenza dello stato di paura, cioè l’animale si blocca, la pressione del sangue ed il battito cardiaco aumentano, sussulta ecc., accadono quando il condizionamento sia stato operato anche in assenza della scossa, basta la luce o il suono. Se il rinforzo non viene eseguito le reazioni tendono a diminuire; tuttavia (dato per me importante) questa alterazione del comportamento di risposta non deriva dall’eliminazione della memoria emozionale, bensì dal controllo che il cervello esercita sulla paura. Lo sviluppo che segue è molto utile per chi si occupa di questo argomento (la paura) e lo riproduco per intero in originale: “For example, an apparently extinguished fear response can recover spontaneously
or can be reinstated by an irrelevant stressful experience. Similarly, stress can cause the reappearance of phobias in people who have been successfully treated. This resurrection demonstrates that the emotional memory underlying the phobia was rendered dormant rather than erased by treatment” (op. cit., p. 32).
Una riflessione carica di conseguenze sia per chi si occupa di condizionamento che per chi si occupa di psicoanalisi nelle sue varie forme (freudiana, adleriana, junghiana, lacaniana, fantiana, ecc.).
Anche per Le Doux vale l’ipotesi dello sbaglio di interpretazione, egli scrive infatti che è assodato che lo “shock” modifica il modo in cui i neuroni di certe importanti regioni del cervello interpretano lo stimolo sonoro (op. cit., p. 33). L’articolo, che sarebbe interessante leggere per intero (per chi non l’ha ancora fatto) prosegue indicando le zone responsabili dell’emozione e dove bisogna incidere per interferire con le risposte (il nucleo centrale dell’amigdala) insomma tutta una serie di procedure che possono essere sperimentate sui topi. Altre informazioni utili al nostro scopo possono essere tratte da un interessante articolo di Allan I. Basbaum intitolato “Memories of Pain” (Science & Medicine, Nov/Dec. 1996), in cui si sostiene, in modo documentato da esperimenti di laboratorio, che il sistema nervoso è drammaticamente alterato da offese (lesioni, colpi, scosse, ecc.) persistenti e dagli stimoli nocivi prodotti da esse. Al punto che il ricordo del dolore contribuisce alla persistenza dello stesso anche quando il danno originale è risolto. Le
osservazioni su pazienti umani, e gli esperimenti sui soliti topi hanno dimostrato che questi cambiamenti sono, di fatto, ricordi dell’offesa e che possono influenzare il modo in cui gli stimoli lesivi futuri saranno elaborati e quindi la percezione del dolore. La registrazione mnemonica del dolore produce dolore anche quando la lesione sia guarita. Allan I. Bashaum scrive: “Any physician who has examined patients with persistent pain has observed the manifestations of these changes. In the setting of injury, stimuli that are normally not noxious now produce pain, and noxious stimuli produce a pain that is much greater than normal”. Le alterazioni del sistema nervoso dovute ad offese persistenti creano quindi una ipereccitabilità cellulare tale che le cellule possono diventare attive e scaricare anche in assenza dello stimolo. In parole povere: esiste una risposta misurabile ad uno stimolo; il luogo stimolato viene offeso (p.e. una bruciatura); lo stesso stimolo dopo la bruciatura provocherà una risposta molto più intensa che potrà conservarsi nella memoria; una nuova stimolazione provocherà la seconda risposta e non la prima anche se la bruciatura è guarita e non ripetuta; la risposta dolorosa potrà attivarsi anche in assenza dello stimolo. Mi sembra che queste informazioni neurologiche siano da tenere in considerazione non fosse altro poiché ci possono indicare come la vita intrauterina e le sue vicende più o meno lesive possano interferire con le capacità di variazioni di soglia nell’affrontare il dolore psicobiologico durante la gestazione, dopo la nascita e durante l’arco della vita.
Ciò che ci indicano gli autori di questo articolo è che, da un punto di vista del cervello, esiste la possibilità di uno stoccaggio di informazioni che riguardano le esperienze emotive di paura (angoscia) e la loro gestione nervosa. Da un punto di vista micropsicoanalitico, possiamo allora dire che la riattivazione dell’affetto di ansia-angoscia-paura rispetto ad un fenomeno attuale, non obiettivamente pericoloso, rievoca le memorie inserite
nell’ordinatore centrale, cioè il cervello, che riguardano degli accadimenti passati obiettivamente pericolosi, la cui registrazione non è stata cancellata. È ciò che dicevo prima; di fatto, non è necessario fare intervenire una memoria energetica in senso stretto quando, per il nostro scopo (ontogenetico), è sufficiente considerare una memoria psicobiologica della traccia co-pulsionale, potrei dire una memoria algebrica. Certamente si dovrà considerare il fenomeno dell’ereditarietà delle reti di comunicazione anzi, per essere più precisi, della loro forma specifica. Ma anche in questo senso il concetto di
memoria algebrica, nel senso etimologico della parola (mettere a posto delle cose sconnesse) può aiutarci. La spiegazione è che, quando gli stimoli attuali di un certo avvenimento attuale non pauroso in sé vanno ad incanalarsi nelle forme specifiche, cioè nelle tracce della paura, insorgerà un affetto di paura collegato per contiguità allo stimolo associativo, cioè all’avvenimento attuale; vale a dire, un fatto attuale rappresentazionale, un’informazione, un compito da svolgere tramite un suo particolare associativo, si incanala nelle tracce della paura e si unisce ad esse. In modo tale che viene a crearsi un nesso causale artificiale. E ri-insorge la paura di un avvenimento passato. Da un punto di vista specifico penso che la forma delle tracce sia ereditaria così come sono ereditari il colore degli occhi o le pliche che segnano il palmo della mano, o le rughe d’espressionedel viso, ecc.


Adolf Seilacher, nel suo articolo “Fossil behavior” (Scientific American, august 1967,
vol. 217, p, 72), scrive che tramite lo studio delle tracce fossili di certi animali più o
meno striscianti (Helminthoida labyrinthica, ecc.) che sono vissuti nell’oceano nel Paleozoico (da 600 milioni a 200 milioni di anni fa) si possono ricavare i derivati dei comportamenti di questi animali, compresi i momenti critici, ad esempio quelli riguardanti le interazioni con altri animali, sia della stessa specie che di specie simili.
Per me, rispetto a ciò che ho detto poc’anzi sul cervello, ho l’impressione che
in esso esistano delle reti di tracce simili, che possono venir riattivate quando
l’energia associative le percorre. Quindi, se una di queste tracce avrà registrato un momento in cui l’animale è state in pericolo, e per qualche ragione a
causa di un dettaglio l’energia nervosa si incanalerà in esse, riaffiorerà
alla coscienza una vibrazione, simile a una nota musicale, la cui percezione sarà descritta con la parola “angoscia”. Quindi, l’affetto da angoscia è paragonabile a una vibrazione che vada ad agganciarsi ad una rappresentazione, in modo da costituire un insieme rappresentazionale-affettivo, come una musica che esprima un sentimento di tristezza che si aggancia a delle parole gaie. Le parole gaie saranno accompagnate da un affetto di tristezza, che verrà attribuito, da chi ne è il portatore, ad esse.
Facendo un altro esempio, una scena comica di un film, che provoca nello spettatore il pianto o la paura. Una discordanza tra l’intonazione emotiva dell’approccio al fenomeno e la natura del fenomeno. Per esempio la reazione difensiva di evitamento nell’avvicinarsi al fuoco (la paura di bruciarsi) che insorge quando ci si avvicina ad un drappo rosso.
Per me la risposta emozionale è guidata da una risposta associativa che è guidata da un attributo situazionale, il colore rosso, che si incanala in una traccia mnemonica filo-ontogenetica che corrisponde all’esperienza plurivalente del fuoco.
Da un punto di vista micropsicoanalitico, a seconda delle esigenze dell’Immagine e quindi a seconda delle sfaccettature di essa che si attiveranno nell’Es-inconscio e metteranno in scena i vari personaggi del super-io filo-ontogenetico, si attiverà la risposta che potrà essere di calore rispetto ad un fuoco che scalda o di paura rispetto ad un fuoco che brucia. Le due variabili potranno manifestarsi assieme ed essere oscillanti. E allora
ritorniamo al discorso iniziale, la necessità di una grande fatica per discernere la situazione ed eliminare l’attesa di essere bruciati da un fuoco che appena scalda, oppure che proprio non c’è. È un cartone rosso di una messa in scena che non è mai stata smontata e continua ad alterare le risposte. Queste risposte, il dolore e la paura sono reali, come sono reali le pene che si provano e le lacrime che si versano durante la proiezione di un
film, che non dimentichiamolo, è l’espressione fotografata di un accadimento doloroso ma non presente durante lo svolgimento della pellicola: è memoria.