Un pensiero di oggi per un lavoro di ieri.
Questo “vecchio” articolo era una parte delle informazioni e ipotesi che avevo esposto negli anni ottanta nel corso di una conferenza fatta a Genova nei locali della Fiera del mare. Faccio questa precisazione per spiegare la frase “nemo profeta in patria” che trasformo in “taci gli antenati ti ascoltano”. Qualche anno dopo, mentre mi stavo occupando di letterati e poeti liguri, per elaborare un insieme di lettere che Angelo Barile (il poeta) aveva scritto a suo cugino Giovanni Peluffo (mio padre) mi resi conto che quelle due frasi erano una costante anche della mente dei liguri e, purtroppo, di tutti gli esseri umani. C’è sempre un nemico che ti ascolta e ti giudica. Il peccato è la conoscenza e il nemico è dio, la superstizione.
Il tema centrale del libro di Giovanni Boine, “il Peccato” è proprio quello. Come strapparsi di dosso il senso di colpa, uscire dai solchi incisi dagli antenati, uscire dal tormento “ereditato”. Un politico direbbe “un tormento doveroso”. Il peccato era quello di essersi innamorato, ricambiato, di una “suora” e di averla aiutata a sottrarsi al convento. Cioè essersi appropriato di una sorella sposa di Cristo. Il solito Edipo.
Tuttavia se anche uso questo banale esempio, il tentativo di uscire dai solchi è un problema di tutti gli esseri umani. S. Freud l’ha magistralmente descritto in “L’uomo Mosé e la religione monoteistica” e quei solchi tracciati nella sabbia del deserto in cui si compie il destino del popolo ebraico non sembrano avere né inizio né fine. Noi prendiamo in considerazione, per convenzione, un tratto del cammino, dall’uscita dall’Egitto al panorama della terra promessa, ma quelle tracce vengono… da e vanno verso … Di più non osiamo sapere.
Questo però è solo l’aspetto descrittivo del problema e non prende in considerazione il fatto che questi solchi sono costellati da movimenti retrogradi che riportano l’oggetto su tracce già percorse, da cui per un poco esce per poi ricostruirne il movimento e la forma in luoghi e tempi diversi. Ogni volta ne ripete l’esperienza e ne rinnova la forma sembra però che la dinamica si autoalimenti e l’energia non si esaurisca mai.
Con una descrizione topico – dinamica si parla d’Immagine filogenetica che dirige la coazione a ripetere. D’altra parte se la coazione a ripetere continua ad esistere, deve avere una sua utilità nelle procedure di adattamento. Forse è un modo per creare delle stazioni di riferimento, dei santuari, nel caos indifferenziato di un deserto mutevole e senza panorami fissi.
I comportamenti incomprensibili
Si può iniziare il discorso meditando sul significato della frase nemo profeta in patria che a me, genovese, in questo momento sembra trasformabile in taci, gli antenati ti ascoltano. In questa frase c’è già una parte della spiegazione rispetto a ciò che riguarda l’azione dell’Immagine filogenetica sul comportamento attuale di molte persone.
Per S. Fanti, l’Immagine è l’insieme ereditario delle rappresentazioni e degli affetti che strutturano l’inconscio a partire dall’Es. Ossia l’insieme delle tracce energetiche di esperienze copulsionali, sia qualitative (rappresentazioni), sia quantitative (affetti) che si formano tanto nello sviluppo individuale (ontogenesi) quanto in quello della specie (filogenesi).
La tesi che intendo sostenere è che le ripetizioni di comportamenti incomprensibili, sia dell’adolescente che dell’adulto, non hanno cause esclusivamente ontogenetiche, ma si riferiscono anche a componenti ereditarie.
Tutto ciò che riguarda il comportamento incomprensibile, cioè doloroso, umiliante, negativo, distruttivo, che si ripete regolarmente, senza possibilità di intervento, all’insaputa di chi lo mette in atto, è legato, a mio avviso, alle manifestazioni dell’Immagine filogenetica e, quindi, esiste a priori dallo sviluppo evolutivo e si manifesta in qualunque momento della vita della persona.
In questa prospettiva, parlare di adolescenza ha poco senso.
L’adolescenza acquista senso, da un punto di vista sociale, perché è il momento della vita in cui si completa la maturazione psicobiologica e si riattivano tutte le spinte copulsionali preesistenti.
Gli adolescenti sono in grado di accoppiarsi e riprodursi, per cui si confrontano con tutti i loro desideri inconsci infantili, reimpastati durante il periodo di latenza, quando la loro realizzazione era impossibile. Un bambino di sei anni che desidera avere un figlio dalla mamma o dalla sorella può solo desiderarlo: da un punto di vista pratico, tale desiderio è irrealizzabile. La possibilità di pensare in modo concreto e immediato a questa progetto scaturisce dall’esistenza dell’Immagine filogenetica, ossia di un’esperienza psicobiologica tracciata nell’ereditarietà.
Tutto ciò che, ad esempio, compete il desiderio incestuoso, diviene assai più pericoloso nel periodo puberale per il semplice fatto che potrebbe essere agito. Se i desideri sono inconsci, non possono essere messi in atto dal soggetto in maniera diretta, ma il senso di colpa che ne deriva si ripresenta in adolescenza e implica la costituzione di quelle spinte oppositive, di quelle ribellioni, di tutti i tentativi di uscire dalla famiglia tramite l’opposività che portano a dire che la generazione dei figli si ribella a quella dei genitori.
Non intendo riferirmi a quella incomprensibilità fisiologica tra generazioni determinata da un cambiamento dei linguaggi e delle modalità espressive. Ad esempio, quando ero ragazzo, cominciavo ad ascoltare con grande piacere il jazz; mio padre era un amante della musica classica e lirica e tollerava che io ascoltassi il jazz, ma poteva giusto tollerarlo, perché, per lui, quello era solo rumore. Dal punto di vista musicale non ci capivamo, però ci comprendevamo sul piano della tolleranza, che è quello che conta.
Non mi riferisco neppure alla incomprensione tra generazioni determinata dalla messa in atto di comportamenti che possono produrre conseguenze estreme e che possono venire considerati come linguaggi diversi. Ad esempio, la tossicodipendenza può essere considerata un linguaggio autodistruttivo, espresso in modo diverso rispetto alle generazioni precedenti; oggi, il tossicodipendente si distrugge con la droga, ieri, si sarebbe arruolato come volontario in qualche guerra.
Ciò che rimane è che una frangia della popolazione manifesta un desiderio coatto autodistruttivo e un’altra considera incomprensibile tale comportamento.
Da un punto di vista psicodinamico, considero il comportamento individuale legato alla tossicodipendenza e non mi occupo del fenomeno collettivo. Assumo dunque come esempio un ipotetico soggetto che abbia la tendenza a rimettersi, compulsivamente, in una situazione umiliante, spiacevole, mortifera. I suoi genitori non lo capiscono più, perché da un certo giorno, secondo loro, il ragazzo è finito nell’orbita dei cattivi compagni. In effetti, i cattivi compagni esistono: il problema è che ognuno di noi può essere un cattivo compagno per qualcuno e un buon esempio per qualcun’ altro. In altri termini, ognuno di noi è il tramite per la messa in atto di desideri inconsci, preconsci e consci di un’altra persona. Il dato obiettivo è che il ragazzo, attraverso l’esempio dell’altro, si accosta a un mondo che lo avvicina all’autodistruzione. In effetti, il comportamento distruttivo, in quanto manifestazione della coazione a ripetere, deve fallire.
Il tossicodipendente che muore di overdose è una persona che ha fallito la ripetizione, cioè se ne è liberato per caso, sia pure a prezzo della propria vita, il che ci dimostra come la coazione a ripetere ( la ricerca della sofferenza) ci mantenga in vita. Quest’ultima, per definizione, deve fallire: i comportamenti autodistruttivi rappresentano il tentativo coatto di uscire da una situazione traumatica interna non abreagita, cioè non neutralizzata da un punto di vista energetico.
La situazione autodistruttiva deriva da un trauma psichico in cui l’impatto tra la spinta del desiderio rimosso e i meccanismi difensivi che lo mantengono tale subisce una rottura che è, appunto, il trauma: una ferita psichica.
Dal punto di vista delle apparenze, il trauma è spesso giustificato da un’induzione proveniente dall’esterno, nel senso che la causa supposta verrà identificata in un fatto contingente, ad esempio la separazione tra i genitori.
Il vero trauma non è però mai il fatto contingente, ma è un effetto dell’induzione associativa che ne consegue, tale da provocare un ritorno del rimosso, dall’interno all’esterno, caratterizzato dalla mancanza di contenimento dei meccanismi difensivi.
Tale ritorno, va ribadito, produce una ferita psichica che, al pari dei normali processi di cicatrizzazione somatica, attiva un processo di ricostruzione del tessuto, in questo caso psichico.
Tuttavia, la ricostruzione di un tessuto psichico ha una procedura diversa da quella somatica, in quanto comporta una reversibilità dei fatti (tornare indietro) che obbliga il soggetto a ritrovarsi coattivamente all’interno del momento traumatico per arrivare a quello antecedente, che non sarà più raggiunto.
Questa è la coazione a ripetere. L’analista, in questi casi, si sente dire: Ogni sei mesi mio figlio ha un incidente, oppure: Mio figlio ha cambiato cinquanta scuole, perché ogni volta si fa buttare fuori.
I ragazzi, da parte loro, non percepiscono la ripetizione (o ricerca coatta dell’insuccesso) e, come tutti gli esseri umani, difficilmente avranno coscienza del fatto ripetitivo e troveranno giustificazioni razionali, anche non pretestuose.
Sono sovente i genitori ad accorgersi di tali ripetizioni, ma non sanno trovare una spiegazione che li soddisfi.
In quel momento, li invito a uscire, se possono, dal loro abito ideologico e dai loro pregiudizi; in altri termini, chiedo loro di ascoltarsi dentro, ascoltare il loro cuore. Le persone normali, che sono la maggioranza, dopo un certo periodo di lavoro analitico, non vivono più la sensazione di estraneità, constatando che, in qualche modo, quelle disgrazie, anche sotto altre forme, nella famiglia vi sono sempre state. Ad esempio, ricordano che la “disgrazia” capitata al figlio si era già verificata quando un fratello era fuggito di casa per arruolarsi in un esercito mercenario. In altri termini, si ha l’impressione che un destino “disgraziato” perseguiti quei genitori. A mio avviso, questo riconoscimento è il primo passo: la percezione di fatti che si ripetono. Sarà così chiaro come la tossicodipendenza non sia il primo avvenimento, isolato e traumatico, a tormentare quella famiglia.
Supponiamo che il ragazzo decida di intraprendere una micropsicoanalisi: in un tempo più o meno breve si costituiranno i legami associativi tra i vissuti attuali e la manifestazione principale della coazione a ripetere, in questo caso la tossicodipendenza. I pensieri che verranno espressi in seduta, rispetto alla droga, saranno gli stessi che il ragazzo riferisce quando parla, ad esempio, della fidanzata, descrivendo una relazione tormentata e incomprensibile, in cui il tormento è unito all’esaltazione, una relazione in cui la droga diventa un oggetto d’amore da cui si dipende e il cui possesso vale più della vita. Una situazione che è intercambiabile e che ha la sua vera matrice nella relazione degli oggetti interni con l’immagine. Il ragazzo esprime, rispetto alla droga, la relazione d’oggetto con un sostituto dell’immagine parentale, una relazione traumatica, nella quale le sue esperienze copulsionali sono state condensate da un accumulo di energia (un cortocircuito). Di conseguenza, quando lo stimolo associativo si riconnette a un elemento di queste esperienze, la risposta è sempre ripetitiva, a senso unico.
Nel lavoro di seduta vengono espressi i contenuti manifesti della rappresentazione-affetto passata e attuale del trauma, vale a dire che le esigenze dell’Immagine ontogenetica vengono espresse così come sono rappresentate e vissute nella vita di tutti i giorni e, specialmente, nel sogno.
Nel frattempo, la relazione con l’oggetto si trasferisce sull’analista, di modo che le esigenze dell’Immagine, precedentemente vincolate nella relazione con la droga o con la fidanzata si esprimono ora nella relazione transferale e la situazione diviene analizzabile. Si crea così la possibilità di ritrovare le situazioni microtraumatiche confluite nel trauma che ha messo in moto il meccanismo della coazione a ripetere. A partire da questo momento, la necessità psichica ripetitiva di assumere droga scompare, al pari della dipendenza dagli altri oggetti che davano corpo alle sfaccettature dell’Immagine che sostenevano energeticamente la ripetizione.
Esistono, però, situazioni in cui, pur avendo analizzato i meccanismi traumatici ontogenetici, la ripetizione non cessa e la persona persevera nella sua coazione autodistruttiva come sospinta da una forza “diabolica”, percepita spesso come proveniente da una dimensione indefinibile. Si tratta, allora, di situazioni traumatiche filogenetiche inserite nel destino individuale e che, dal punto di vista ontogenetico, non sono mai state esperite. Come una frase musicale che ritorna, la coazione a ripetere filogenetica, necessaria alle esigenze di equilibrio energetico dell’immagine, riemerge dalla vita degli antenati.
Si rammenti che l’Immagine filogenetica è un insieme di rappresentazioni e affetti che organizzano l’inconscio a partire dall’es ( S. Fanti, “Dizionario di Psicoanalisi e Micropsicoanalisi”, Borla, Roma. ). L’Immagine filogenetica ha esigenze di equilibrio che danno forma al destino di una persona e che quindi fanno scorrere lungo le generazioni i traumi familiari (ed etnici) che si esprimono in modo differente, a seconda del periodo storico.
Le esigenze dell’immagine vengono rappresentate soprattutto nel sogno, che diviene così il ponte tra la filogenesi e l’ontogenesi.
L’Immagine filogenetica si mantiene viva e si manifesta nel sogno (come esigenza dell’es) preparando nell’inconscio quelle attività che producono i comportamenti di veglia che, in fondo, sono i residui onirici che mantengono l’energia necessaria per manifestarsi in tentativi diurni. Tra questi troveremo i residui che mantengono la coazione a ripetere filogenetica nelle sue manifestazioni attuali. In altri termini, i nostri sogni angosciosi o gli incubi ricorrenti si introducono nella vita di veglia che diventa, a sua volta, un “incubo”, una situazione spaventosa dalla quale non si riesce a uscire.
In micropsicoanalisi esiste un supporto tecnico: la ricerca genealogica, che ha lo scopo di vincolare nell’attuale e quindi anche nella ripetizione transferale quegli elementi ripetitivi che la psicoanalisi non riesce a far emergere né a neutralizzare.
In pratica, l’analizzato sarà indirizzato a reperire, in tutti i modi possibili, ogni dato che compete la sua famiglia e gli antenati fino a trovare le determinanti traumatiche, soggettivamente identificate come tali, per poter inserire in un codice rappresentazionale-affettivo riconoscibile il suo inesprimibile genealogico traumatico.
Quindi, durante la ricerca genealogica, che può essere condotta tramite fonti documentarie diverse, quali lettere, archivi, fotografie, mappe delle case in cui la famiglia ha vissuto la persona riprende contatto con i suoi antenati, li reintroietta e li rielabora, costruendo cioè una storia che, anche se non è quella vera, lo è per lei, perché la riconosce come l’origine degli aspetti tragici del destino della famiglia. Viene così vincolata l’energia libera del processo primario che alimenta la coazione a ripetere, a tutti i livelli, a un pensiero conscio affettivamente riconosciuto come l’origine.
Per concludere,possiamo affermare che il passaggio dal processo primario a quello secondario è il lavoro che guida la ricerca nei suoi processi di oggettivazione della proiezione. Questo fatto vale anche per le situazioni traumatiche che, attraverso l’Immagine, continuano a riproporre la loro forma misteriosa, sino a che un membro della famiglia umana la sveli rendendola riconoscibile e la trasformi da mistero a oggetto di studio.