Recensione del volume
“Disabilità e sport. Contributi multidisciplinari”
a cura di Liliana Bal Filoramo
Ed. Celid, Torino, 2007
Da molti anni Liliana Bal Filoramo, che è docente di Psicologia dinamica presso la Facoltà di psicologia dell’Università degli Studi di Torino, cura una ricerca multidisciplinare nei diversi ambiti della psicologia dello sport, i cui risultati si possono apprezzare leggendo i volumi su questo argomento da lei pubblicati per le Edizioni Celid di Torino.
L’ultimo di questa serie, “Disabilità e sport. Contributi multidisciplinari”, offre lo spunto per alcune considerazioni di carattere micropsicoanalitico. Ricordiamo una importante definizione di Nicola Peluffo, che descriveva l’affetto come espressione psichica della motricità 1 . Questa definizione si sofferma sull’aspetto di carica insito nella nozione di affetto, una carica individuabile come quantità (importo di affetto) che può aumentare o diminuire. E’ un concetto vicino a quello freudiano di pulsione poiché si sofferma sull’aspetto energetico del dinamismo psichico.
Ma la definizione va oltre e lega in modo indissolubile la motricità all’affetto, quindi a quella componente psichica più vicina al corpo nelle sue manifestazioni espressive. E lo sport, ogni sport, è movimento corporeo e comporta un movimento psichico la cui espressione è appunto l’affetto. Il contrario della stasi.
Vi sono invece degli eventi capaci di attirare la persona in una dimensione in cui domina la stasi e ogni dinamismo viene come rallentato.
La disabilità corre questo rischio: sia che compaia alla nascita, sia lungo il corso della vita, essa comporta la frattura della spinta verso il cambiamento. Liliana Bal, nel soffermarsi su questo argomento, ne esplora un aspetto generale considerando quanto ogni essere umano debba affrontare lo sforzo di “affrancarsi dalla dipendenza nei confronti degli oggetti d’amore primari e di legittimare la propria diversità rispetto all’immagine idealizzata che inconsciamente, ma non solo, i genitori proiettano su di lui.”(op. cit. pag. 12)
Molte persone, anche normodotate intromettano perciò vissuti di disabilità, intesa come mancata corrispondenza alle aspettative genitoriali e, in termini micropsicoanalitici, rispetto al mandato del terreno psichico trasngenerazionale. Queste disabilità “si incistano nel terreno psichico del soggetto predisponendolo, per via della coazione a ripetere, alla reiterazione delle esperienze traumatiche affettive, ma anche fisiche, sotto forma di malattie o infortuni.” (op. cit. pag. 14)
Il discorso sulla disabilità concerne quindi ogni essere umano ma nel caso di un handicap congenito, le dinamiche psichiche, confrontate alla ferita dei genitori e alla difficoltà di reperire relazioni primarie adeguate, spingono al prevalere della pulsione di morte, ovvero alla stasi, all’impossibilità di ogni cambiamento.
Ed è proprio sull’equazione che correla motricità e cambiamento che la riflessione sull’attività sportiva può introdurre una nuova variabile nel problema della disabilità, infatti la stimolazione psichica indotta dall’attività motoria potrebbe rimettere in moto quei meccanismi di elaborazione psichica che sono rallentati dalla stasi indotta dall’ handicap.
Domenico Devoti, in un articolo apparso sul libro di cui ci occupiamo 2 , sostiene che lo sport è per sua natura espressione del corpo: “Il corpo, cioè, in tale contesto oltre ad esprimersi nelle sue potenzialità motorie, forme primordiali dell’azione, diventa il teatro in cui si rappresentano e su cui si scaricano tutti i vissuti memorizzati nell’apparato psichico…, quindi luogo di trascrizione di una quantità di informazioni che permettono la ricostruzione (o la costruzione) della storia biologica e mentale di quel tipo di individuo..” (Pag. 31) Lo sport, secondo Devoti, diviene uno strumento atto a sostenere un “cambiamento dell’assetto globale della persona”, soprattutto, si potrebbe aggiungere, esso sostiene la spinta all’espressione affettiva, intrecciata com’è alla motricità e quindi favorisce l’abreazione di quei vissuti di disabilità che contornano l’identità dell’handicappato. La loro abreazione, almeno parziale, apre la via all’elaborazione psichica e quindi rimette in moto il cambiamento.
Il bel volume di cui riferiamo contiene numerosi e interessanti contributi che suscitano molte riflessioni, particolarmente sulla centralità del corpo per l’intervento riabilitativo dei diversamente abili. Agire sul polo corporeo consente di raggiungere la profondità della persona superando le barriere del linguaggio. Si può pensare, come suggerisce Letizia Martinengo 3 , a un Io corporeo che: “si eleva come un nucleo centrale, solido e sicuro di se stesso, degli altri e della realtà. Esso dona alla persona un senso di interezza, di sostanzialità, di stabilità, di certezza, di continuità nel tempo e di posto nello spazio.” (pag.69) L’attività sportiva praticata dai diversamente abili, consentirebbe quindi, secondo l’autrice, di fare l’esperienza della possibilità di esserci nel mondo, “con una presenza, reale, viva e sostanziale”.
Questa tensione verso un esserci, un sentirsi vivi e in mezzo a vivi, la possibilità di riconoscersi e percepire i mutamenti, il passare del tempo, ciò che finisce e ciò che resta incompiuto, la possibilità di sentirsi in movimento, è un tema che accomuna tutti gli esseri umani e permette di capire che occuparsi di disabilità è anche e forse soprattutto un modo di raggiungere gli aspetti più profondi dei conflitti e dei tentativi che agitano la mente.
Note:
1 Nicola Peluffo, “Riflessioni, definizioni e ipotesi di ricerca”, Aspetti psicodinamici della ricerca didattica in Psicologia Sociale, in: Esperienze,n° 2, Facoltà di Magistero Università degli Studi di Torino, 1976
2 Domenico Devoti, “Lo psicologo dello sport di fronte all’handicap”, Disabilità e sport, Celid. Torino, 2007
3 Letizia Martinengo, “La riappropriazione corporea: riflessioni psicodinamiche”, Disabilità e sport, Celid. Torino, 2007